giovedì 9 luglio 2015

“Due madri” di Ugo Barbàra

DUE MADRI
Ugo Barbàra
FRASSINELLI
Idéo giace nella neve, aveva solo 16 anni ed era una testa calda.

Chi l’ha ucciso, probabilmente un tedesco in fuga braccato dai partigiani, l’ha colpito alle spalle lasciandolo lì, a faccia in giù nella neve.

Inizia così il romanzo “Due madri”, con il racconto di un fatto all’apparenza slegato dalle vicende che prenderanno vita nelle pagine successive, ma che alla fine della narrazione una volta che saranno ricomposte tutte le tessere del mosaico, risulterà essere il perno della storia.

Due vicende corrono parallele: quella di Stella e quella di Olga.
A loro che, sembrano non avere nulla in comune, sono intitolati i capitoli del libro che si alternano così come si alterna il racconto della vita delle due donne.

Stella è vedova, vive da sola nel piccolo borgo di San Virginio, ha un figlio già grande che lavora lontano.

Stella è una donna anziana, ha visto la guerra e ha un grande peso sul cuore:

“Ho peccato”, dice.
“Ma non sono pentita. Non sono pentita affatto.”

Un giorno decide di confessare al giovane prete del paese la sua storia, pur sapendo che laddove non c’è pentimento non può esserci neppure assoluzione.
Ha commesso un grave crimine, ma l’ha commesso per amore. Come è possibile quindi che per lei non possa esserci riscatto?
Così, complice una giornata di pioggia, apre la sua anima a Dio e in chiesa, al buio, inizia a raccontare di tanto tempo prima.

Era giovane Stella, allora. Aveva un marito e un figlio piccolo. Un giorno il marito fu chiamato alle armi ed inviato a combattere al fronte in Russia. Non fece mai ritorno.
Stella si trovò coinvolta, suo malgrado, a nascondere le armi dei partigiani nella sua casa e quando il figlio si ammalò di tifo non esitò a chiedere aiuto ad un medico tedesco per salvargli la vita.

Ma quando i partigiani, sul finire della guerra e a pochi giorni dall’arrivo degli Americani, presero il controllo del paese sterminando e mettendo in fuga i tedeschi nella zona, fu Stella a dover compiere una scelta coraggiosa e nascondere, dove un tempo aveva nascosto le armi, Erwin il medico che aveva salvato la vita di suo figlio.

Olga è una giovane donna con un figlio piccolo Juanito ed è in attesa di un altro bambino. Vive a Baires in Argentina.
Suo marito è un sindacalista. Un giorno Miguel non rientra a casa, diventando uno dei tanti desaparecidos dei quali i familiari perdono le tracce.
Olga e Juanito protetti dal partito riescono a fuggire e trovano riparo presso una giovane coppia che gestisce un albergo a Bariloche, una località montana.
Linda, la moglie è sempre assente, ufficialmente impegnata a promuovere l’albergo, ma in realtà è completamente assorbita dall’attività politica.
Il marito Federico, non condividendo la passione politica della moglie, resta a casa a gestire gli affari di famiglia sotto la supervisione del suocero.

La caratterizzazione dei personaggi è precisa e ben costruita, tutti hanno un ruolo ben definito all’interno della storia, ruolo che li rende molto credibili e molto reali.

Non so se questo dipenda solo dall’indubbia bravura dell’autore o anche dal fatto che, per quanto ampiamente inventati, molti episodi siano basati su fatti realmente accaduti seppur romanzati come viene specificato dallo stesso Ugo Barbàra nei ringraziamenti a termine del volume.

Come sempre ognuno proverà più simpatia per un personaggio piuttosto che per un altro, personalmente Stella delle due o meglio alla fine delle tre donne del romanzo è quella che mi ha coinvolta maggiormente.

Stella è una donna forte e coraggiosa a mio avviso molto più di quanto lo sia Olga che nelle difficoltà ha sempre potuto contare sull’aiuto di qualcuno anche se di sconosciuti.

Stella ha capito fin da subito di dover contare solo sulle proprie forze, ha combattuto per la sua sopravvivenza e per quella di suo figlio; diventa addirittura lei stessa l’ancora di salvezza per un’altra persona mettendo a repentaglio la sua stessa vita per proteggere chi l’ha aiutata.

Olga è più debole, perché se in un primo momento è giustamente spaesata, obbligata dalla necessità a doversi fidare di chi non conosce; successivamente quando ormai è al sicuro e potrebbe almeno in parte cercare di ritrovare un proprio equilibro personale e interiore, tende comunque ad appoggiarsi troppo a Federico.

Federico e Linda sono una strana coppia.
Linda completamente assorbita dalle sue ideologie politiche, non tenta in alcun modo di venire incontro alle esigenze del marito.

Nel momento però in cui teme di perderlo perché vede che Olga si sta insinuando pericolosamente nel loro rapporto, tira fuori gli artigli, ma sembra farlo più per una forma di gelosia e di possesso infantili piuttosto che per amore.
L’impressione è che sia una donna terribilmente viziata e troppo concentrata su se stessa.

Dall’altra parte abbiamo Federico, un uomo talmente innamorato della moglie che, pur di non rischiare di perderla chiedendole conto del loro rapporto, è disposto ad accettare qualunque cosa, anche le briciole.
Subisce passivamente i capricci di Linda e quando non la sente per giorni, cerca di tranquillizzarsi raccontandosi che tanto prima o poi torna sempre da lui.
                                                                                          
Nonostante questo amore assoluto per la moglie però non riesce a non provare qualcosa per Olga che incarna invece il suo ideale di compagna, una donna presente e materna.

Tanto Federico è dolce e comprensivo, tanto il suocero è freddo e burbero, almeno all’apparenza, ma sarà lui quello che riuscirà meglio degli altri a comprendere la gravità della situazione che si è creata e con essa i danni che ne potrebbero derivare.

Al di là dell’empatia che possiamo provare o meno per i vari personaggi, le due storie sono comunque perfette, entrambe coinvolgono, emozionano e appassionano il lettore.

“Due madri” ha il respiro dei grandi classici della letteratura neorealista, ricorda a tratti i romanzi di Vittorini, Pavese, Fenoglio…

La scrittura è lineare, scorrevole e piacevole; la storia forte e delicata al tempo stesso.

Il mio suggerimento è: se state preparando la lista dei libri da portare in vacanza con voi, non dimenticate di inserire questo romanzo nel vostro elenco.




martedì 7 luglio 2015

“Una vita al Massimo” di Massimo Ferrero

UNA VITA AL MASSIMO
(Ed è il minimo che posso dirvi)
Massimo Ferrero
con Alessandro Alciato
RIZZOLI
In estate, complici le giornate più lunghe e le tanto agognate ferie, si ha finalmente molto più tempo da dedicare alla lettura e accade così che si riesca ad avere il tempo di leggere anche quei libri che consideriamo un po’ fuori dai nostri schemi.

Il post di oggi è quindi dedicato ad una lettura un po’ diversa. Se è vero, infatti, che spesso vi ho proposto delle biografie, il protagonista di quella di cui mi appresto a parlarvi oggi è decisamente un personaggio atipico.

Come avrete già capito dal titolo il protagonista di questo post è Massimo Ferrero, altrimenti detto er Viperetta, uomo di spettacolo, imprenditore nonché da un anno presidente della U.C. Sampdoria.

Confesso che fino a quando Massimo Ferrero non ha comprato la mia squadra del cuore, ignoravo totalmente chi lui fosse, per cui non sentitevi assolutamente in colpa se per voi è ancora un completo sconosciuto.

“Una vita al Massimo” è stato scritto in collaborazione con Alessandro Alciato, noto giornalista televisivo ed inviato di Sky.

L’impressione è che non sia stato assolutamente facile per Alciato riuscite a tenere a freno la vulcanicità del Presidente perché leggendo il libro il personaggio Ferrero emerge prepotentemente dalle pagine, tanto che in alcuni punti sembra che lui sia lì accanto a te a raccontarti le cose o quanto meno ci sia Crozza a farlo per lui.
Chi di voi ha visto il comico genovese imitarlo capirà al volo cosa io intenda.

Massimo Ferrero: gioie e dolori.
Eh sì, non è facile per me parlarne in quanto direttamente coinvolta da tifosa sampdoriana.
La prima volta che l’ho visto e ho scoperto essere il nostro nuovo Presidente, diciamo che sono rimasta, e ammettiamolo pure, sconvolta!
Da buona genovese, riservata, fredda e distaccata almeno all’apparenza, ritrovarsi in balia di un personaggio del genere e dover dire addio allo storico “stile Sampdoria” è stata una doccia fredda. 

Massimo Ferrero però è stato davvero bravo a guadagnarsi quasi immediatamente non dico la fiducia, per quella ci vogliono tempo e risultati, ma la possibilità di poter dimostrare il suo valore, quella sì.

Indubbiamente ha conquistato tutti fin da subito con la sua simpatia e ha riportato nello spento ed apatico ambiente blucerchiato una spensieratezza, una gioia e soprattutto un entusiasmo che mancavano ormai da troppo tempo e per questo non lo ringrazierò mai abbastanza. Grazie Presidente!

Ma veniamo al libro dove Ferrero si racconta con tutta la sua simpatia, tanta! e tutta l’onestà o meglio tutta quella di cui è capace…

Tutti i fatti raccontati in questo libro sono realmente accaduti.
O almeno io me li ricordavo così…

Massimo Ferrero nasce a Roma il 5 agosto del 1951. La sua è una famiglia povera che fatica a sbarcare il lunario. Vive a Testaccio, un quartiere popolare dal quale scappa ogni volta che può per raggiungere Cinecittà, fin da piccolo sa che quello sarà il suo mondo, il suo sogno da realizzare.

Gli aneddoti della sua infanzia sono tutti raccontati con ironia, freschezza e vivacità: da quelli più buffi come l’essere prelevato a casa dai carabinieri ogni giorno ed obbligato ad andare a scuola a quelli più difficili come la detenzione nel carcere minorile per scontare una pena di sei mesi per “questioni d’amore”.

Nonostante la povertà, nonostante la dura esperienza del carcere che spesso più che correggere ed aiutare chi vi è stato detenuto lo allontana dalla legalità una volta di nuovo in libertà, Massimo Ferrero ha dimostrato di possedere una grande forza di volontà e un orgoglio non comuni nel voler riuscire a raggiungere i traguardi che sin da giovanissimo si era prefissati.

Leggere dei suoi mezzi, magari anche poco ortodossi, per entrare in quel mondo che tanto lo affascinava così come fare da autista al Gianni Morandi dei tempi d’oro senza neppure avere la patente o l’insistenza e la sfacciataggine con la quale riuscì un giorno a farsi assumere come segretario da Dino Risi, sono pagine divertenti, ma sono anche la prova della caparbietà di cui è dotato quest’uomo.

I suoi metodi possono essere discutibili, lui stesso parla della sua vita come di un film e leggendo il libro sembra proprio di leggere un copione magari di uno di quei film con Alberto Sordi, ma bisogna riconoscergli che nonostante le sue umili origini che giustamente non rinnega mai e questo gli fa molto onore, il suo curriculum vanta un numero elevatissimo di film di cui si è occupato ben 140: 20 da segretario, 20 da ispettore, 40 da organizzatore ed il resto da produttore.

Oggi Massimo Ferrero possiede ben 60 sale cinematografiche e quel ragazzino che la mamma lavava con il sapone di Marsiglia sperando di levargli di dosso l’odore dignitoso della povertà, nel 1995 è stato addirittura invitato a Cuba per progettare e creare il cinema di stato del paese ed è riuscito a stringere la mano a Fidel Castro!

Massimo Ferrero è un uomo ironico, basti vedere come riesce a sorridere davanti all’imitazione di Crozza e credo che pochi, me compresa, riuscirebbero a reagire con tanta grazia.

E’ un uomo innamorato della sua famiglia soprattutto dei suoi figli e di Manuela, la donna della sua vita.

E’ entusiasta, è incosciente e geniale, spavaldo e attento ai particolari allo stesso tempo.

E’ un uomo che ha realizzato parte dei suoi sogni, ma proprio perché sognatore ne ha ancora tanti nel cassetto da realizzare.

Massimo Ferrero ama la vita e questo suo amore per la vita è contagioso così come il suo entusiasmo; è un mercante di sogni, un po’ Grande Gatsby e un po’ Er Grigione. 

Cosa penso io da cittadina di Samp&Doria del mio Presidente? Posso rispondere alla fine della campagna acquisti?
Presidente, mi permetta di continuare a sognare ancora...



martedì 30 giugno 2015

“Viaggio nella bellezza” Roberto Bolle

VIAGGIO NELLA BELLEZZA
Roberto Bolle
RIZZOLI
“Viaggio nella bellezza” è uno di quei volumi di cui ci si innamora appena lo si sfoglia; un libro fotografico dal grande formato 25,5 x 33 cm, cartonato con sovraccoperta, appare subito un oggetto del desiderio per qualunque bibliofilo.

Un libro da sfogliare, leggere, assimilare e poi lasciare a far bella mostra di sé nelle nostre librerie pronto per essere sfogliato ogni volta se ne senta la necessità.

Dal primo momento che l’ho scoperto in libreria ho capito che doveva fare parte della mia collezione e che non potevo assolutamente esimermi dal parlarne nel blog.

Non credo che Roberto Bolle abbia bisogno di presentazioni, chi non lo conosce?

Étoile della Scala di Milano dal 2004 e Principal dell’American Ballet Theatre dal 2009, ha ballato nei teatri più prestigiosi del mondo portando sulla scena nel corso della sua carriera tutti i ruoli più importanti del repertorio classico.

Con l’obiettivo di fare conoscere il balletto classico ad un pubblico sempre più vasto dal 2008 ha portato in luoghi mai raggiunti dalla danza il suo “Roberto Bolle and Friends” riscuotendo un enorme successo.

Attraverso un bellissimo percorso fotografico Roberto Bolle ci accompagna con questo libro in un viaggio alla riscoperta delle bellezze della nostra terra.

In più di un’intervista l’étoile ha sottolineato quanto per lui sia fondamentale far passare il messaggio dell'importanza di tutelare e proteggere il nostro patrimonio culturale che non ha eguali nel mondo.

Non sembra strano che questo “progetto fotografico” sia stato così fortemente voluto da Roberto Bolle se si pensa che tra i tanti riconoscimenti ricevuti, il ballerino che dal 2007 collabora con il FAI, nel 2012 è stato insignito del titolo di “Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica” grazie ai meriti acquisiti verso il Paese in campo culturale e nel 2014 a Parigi della Medaglia d’Oro dell’Unesco per il valore culturale universale della sua opera artistica.
Titoli che ne fanno a tutti gli effetti un perfetto ed autorevole ambasciatore della nostra cultura nel mondo.

Passiamo ora ad analizzare come è strutturato il libro i cui testi vivi e coinvolgenti sono a cura di Valeria Crippa, l’introduzione di Robert Wilson e l’interessante prefazione che riporta i bellissimi versi della celebre poetessa di Lesbo è ad opera di Giovanni Puglisi:

Chi è bello, lo è finché è sotto gli occhi, chi è anche buono lo è ora e lo sarà poi.
(Saffo, Liriche, VII-VI sec. a.C.)

Nella prima parte del volume intitolata “Pompei” (fotografie di Fabrizio Ferri) il fisico statuario del ballerino in perfetta sintonia con il sito archeologico ne mette in evidenza la grandiosità esaltandone la bellezza, ma sottolineandone allo tempo stesso anche la fragilità nonché la necessità di intervenire per salvaguardare questo nostro patrimonio troppe volte ignorato.

L’importanza della storia è messa in evidenza attraverso le foto delle rovine pompeiane, esse ci parlano del nostro passato invitandoci a risollevarci per riappropriarci della nostra identità attraverso un moto d’orgoglio, a ricordare la nostra grandezza per risorgere dalle nostre rovine in quanto eredi del prestigio dei nostri antenati.

La bellezza di Pompei è una bellezza fragile che ha bisogno del nostro aiuto per essere preservata affinché arte e conoscenza possano essere tramandate nel miglior modo possibile ai nostri posteri.

La seconda parte del volume intitolata “Viaggio in Italia” (fotografie di Luciano Romano) è invece dedicata alle foto di scena in cui vediamo come la danza entri in perfetta unione con luoghi pieni di arte e magia: l’Arena di Verona, le Terme di Caracalla ed il Colosseo a Roma, i Giardini di Boboli a Firenze, il Teatro Greco di Taormina, solo per citarne alcuni perché lascio a voi il piacere di scoprire gli altri…

Il libro non ci parla solo della bellezza dell’arte e della danza, ma anche della fatica e del lavoro che sono necessari per raggiungerla, perché raggiungere la perfezione che sia di un movimento di danza, che sia di un corpo perfettamente scolpito o che sia di un’opera d’arte necessita costanza, abnegazione e impegno.

“Viaggio nella bellezza” è l’esaltazione del bello in tutte le sue forme d’arte, sempre però con la consapevolezza che la bellezza non è mai solo fine a se stessa, ma è piuttosto lo strumento attraverso il quale l’uomo può e deve costruire un mondo migliore.






mercoledì 17 giugno 2015

“Il ladro di nebbia” di Lavinia Petti

IL LADRO DI NEBBIA
di Lavinia Petti
LONGANESI
Lavinia Petti è nata a Napoli nel 1988, laureata in Studi Islamici all’Istituto di Studi Orientali della sua città, “Il ladro di nebbia” è il suo romanzo d’esordio.

Protagonista della storia è Antonio M. Fonte, uno scrittore cinquantenne divorziato che vive da solo in un decadente appartamento in un palazzo altrettanto fatiscente nei quartieri spagnoli di Napoli. Unica compagnia la sua amata gatta, Calliope, una siamese irreparabilmente orba.

Antonio M. Fonte è uno scrittore di successo, ma a lui non importa nulla, detesta la gente perché la ritiene “malata” e pertanto preferisce tenersi alla larga dal prossimo chiunque esso sia.
Il suo agente letterario, tal Leopoldo Saetta, deve fare i salti mortali per ricordargli le scadenze e riuscire così a pubblicare le sue straordinarie storie che affascinano così tanti lettori.

Antonio M. Fonte ricevere ogni giorno tantissime lettere dai propri fan che sono la disperazione del suo portinaio e della moglie di questi perché lo scrittore tende a dimenticarsi di ritirare la propria corrispondenza invadendo così gli spazi condominiali nonché la guardiola e la casa del signor Nicotiana.

Un giorno mentre si appresta a bruciarne alcune, Antonio M. Fonte, fa una scoperta sorprendente.
Il nome del mittente della lettera che tiene in mano è proprio il suo così come la calligrafia appartiene inequivocabilmente a lui; peccato però che lui non ricordi nulla di quella lettera scritta quindici anni prima così come non ricordi nulla di Genève Poitier, la donna alla quale la missiva era indirizzata.
Il mistero si infittisce ulteriormente quando lo scrittore scopre che nella lettera egli aveva scritto di aver commesso un omicidio, ma anche riguardo a ciò regna il buio più assoluto nella sua mente.

Una sera tornando a casa dalla cena di compleanno organizzatagli dal suo agente letterario, Antonio si trova dinnanzi ad una torre mai vista prima, entrato nella costruzione fa la conoscenza di uno strano personaggio ovvero il custode di una specie di ufficio “oggetti smarriti” che gli parla di un luogo magico, un mondo parallelo nel quale chiunque può andare alla ricerca di ciò che ha perso, non solamente oggetti, ma anche ricordi, amori giovanili, speranze, sogni… quel luogo è Tirnaìl.

Qualche giorno dopo Antonio M. Fonte si trova catapultato all’improvviso in questo magico mondo dove città, strade e paesaggi cambiano continuamente, un mondo popolato da personaggi fuori dal comune, un luogo misterioso dal quale, una volta entrati, difficilmente si riesce a fare ritorno.

Lo scrittore avrà quindi un tempo limitato per ritrovare i ricordi che tanti anni prima aveva deciso di cancellare, trascorso quel tempo, se non troverà ciò che cerca sarà irrimediabilmente condannato a restare a Tirnaìl per l’eternità.
                           
“Il ladro di nebbia” è stato paragonato ai romanzi di Carlos Ruiz Zafòn, autore che io apprezzo tantissimo, ma con il quale sinceramente non ho trovato molte similitudini.
A mio avviso i romanzi di Carlos Ruiz Zafòn tendono ad essere più gotici, mentre il libro di Lavinia Petti mi sembra più legato ad un genere fantastico.
Come lo scrittore catalano però, Lavinia Petti è indubbiamente dotata di notevole forza immaginativa.

La scrittrice ha dimostrato inoltre una grande capacità evocativa riuscendo a creare un mondo completamente nuovo: basti pensare a Vanesia, la città delle illusioni o al Mar Netturbio, il mare nato dalle lacrime sprecate dagli uomini oppure ad un luogo come Nechnabel, il luogo delle speranze perdute e così via.

Leggendo il libro è impossibile non richiamare alla mente altre opere, altre storie sia classiche sia moderne: l’idea della ricerca della lampadina per ritrovare il proprio lume, ricorda fortemente la vicenda di Astolfo sulla Luna alla ricerca del senno perduto di Orlando nel celebre “Orlando Furioso” di Ariosto.
Molte immagini richiamano alla mente il romanzo di Lewis Carroll: lo stesso Edgar, il pittore, con il suo mazzo di chiavi sembra proprio uscito da “Alice nel paese delle meraviglie”.
Fino ad arrivare a letture proprie dei giorni nostri: i Nox, le terribili creature di Vladimiro il Vampiro, non rievocano forse i terrificanti dissennatori di Harry Potter?
E magari mi spingerò un po’ troppo oltre, ma l’immagine del bosco incantato che afferra e cerca di imprigionare Antonio M. Fonte mi ha ricordato alcune pagine dei libri della saga “I diari del vampiro” di  Lisa J. Smith nelle quali si leggeva di boschi infestati dai Malach.

Lavinia Petti è stata brava a costruire un mondo fantastico, ma ancor di più è stata abile a trovare i personaggi giusti da far muovere all’interno di questo per dare vita ad una bella favola per adulti, una favola che spesso porta il lettore a riflettere sul senso della vita, sui desideri, sui sogni…

Ci vuole più coraggio per dimenticare che per ricordare       

Come si può convivere con il fantasma di ciò che è stato e lo spettro di ciò che non sarà mai?  Non si può, ecco perché si muore. Non invecchiamo a forza di vivere la vita, ma a furia di ricordarla.

Bello il finale un po’ freudiano che cavalca quella sottile linea tra il sonno e la veglia; un finale che invoglia il lettore a reinterpretare la storia appena letta attraverso una rilettura onirico fantastica degli avvenimenti occorsi al protagonista.

Vorrei infine segnalarvi una simpatica iniziativa della casa editrice Longanesi ideata per la promozione di questo romanzo nel caso alcuni di voi volessero partecipare.

Longanesi ha infatti ideato un contest legato alla tematica dei nostri ricordi più belli, quelli che ciascuno di noi non vorrebbe mai dimenticare.
Il contest si tiene sul sito www.illadrodinebbia.it e partecipare è semplicissimo, basta inviare tramite foto o testo o entrambi (foto + testo) il ricordo che si vorrebbe tenere vivo per sempre. Tutti i materiali saranno conservati nello spazio online che Longanesi ha denominato Wall dei ricordi.
Sulla base del materiale che riceveranno sul sito, selezioneranno immagini e testi che andranno a comporre il booktrailer ufficiale del romanzo.
Lavinia Petti, dal canto suo, selezionerà dallo stesso materiale alcuni fortunati contributi che la ispireranno per comporre dei racconti inediti.
Qui  è possibile caricare in poche semplici mosse il proprio ricordo ed entrare a far parte del Wall.


domenica 7 giugno 2015

“March” di Geraldine Brooks

MARCH
di Geraldine Brooks
BEAT
Edizione originale NERI POZZA
Ancora una volta sono a proporvi un libro di Geraldine Brooks, un’autrice di cui apprezzo molto non solo il modo di scrivere, ma anche la capacità di trovare sempre storie interessanti da raccontare; storie che ci fanno riflettere, storie popolate di personaggi ben caratterizzati e perfettamente inquadrati storicamente grazie soprattutto alla sempre attenta e minuziosa ricerca di fonti e documenti da parte dell’autrice.

Proprio con “March”, pubblicato in Italia da Neri Pozza nel 2005 con il titolo di “L’idealista”, Geraldine Brooks vinse nello stesso anno il premio Pulitzer per la narrativa.

Chi di voi ha letto “Piccole donne” di Louise May Alcott avrà già capito che la Brooks ha voluto con questo libro rendere omaggio ad una scrittrice cha ha amato molto e indirettamente ha voluto rendere omaggio anche a sua madre, Gloria Brooks, che gliene consigliò la lettura quando aveva circa dieci anni:

Mia madre, che è una delle persone più ciniche esistenti al mondo, mi diceva sempre, quando ero bambina, che non esistono nella vita reale persone così buone come Marmee, la madre delle piccole donne, ma io ho sempre amato e ammirato l’eroina di Louise May Alcott.

Questa una delle dichiarazioni di Geraldine Brooks che nella postfazione del libro dichiara che per scrivere “March” ha attinto non solo da “Piccole donne”, ma anche dalla vita della famiglia della sua autrice ed in particolare da quella del padre Amos Bronson Alcott, filosofo trascendentalista, educatore ed abolizionista.

E’ sempre la stessa Brooks a scrivere che:

La famiglia reale di Louisa M. Alcott era tutt’altro che perfetta, e quindi molto più interessante di quelle santarelline delle March.

Vero: quanti di noi non hanno pensato almeno una volta rileggendo “Piccole donne” che le quattro sorelle erano un po’ troppo perfette?
Personalmente ricordo che da ragazzina, come ancora oggi, ho amato ed amo il personaggio di Jo, ma non sono mai riuscita a nutrire molto simpatia per il personaggio di Amy.

Geraldine Brooks si affranca dal romanzo di formazione nel quale rientra l’opera della Alcott, per regalarci una storia più concreta e matura di alcuni suoi protagonisti senza stravolgere per questo la storia originaria, cosa che ho davvero molto apprezzato.

La Brooks ci racconta di una giovane Marmee, come non l’avremmo mai immaginata, appassionata e ribelle, incline a lasciarsi andare a scoppi d’ira anche violenti per difendere i propri ideali, una donna che nel corso degli anni ha dovuto faticare non poco per cercare di frenare i propri moti di collera e i propri istinti per diventare la donna posata di cui noi abbiamo letto in “Piccole donne”.

A parlarci di questa insolita Marmee è il marito, il reverendo March che si trova al fronte, arruolato come cappellano nelle truppe unioniste durante la guerra civile. 
Egli ci racconta della sua vita, dei conflitti che vede ogni giorno, non solo di quelli combattuti sui campi di battaglia, ma anche di quelli dell’animo, ci parla della difficile strada dell’integrazione, della situazione degli schiavi liberati, della corruzione che imperversa tra le truppe e soprattutto tra coloro che dovrebbero tutelare i diritti dei più deboli e che al contrario pensano esclusivamente ai propri interessi personali.

Nel racconto del reverendo c’è spesso spazio per raccontare anche della sua vita passata: di quando era un giovane commesso viaggiatore, di come fece la propria fortuna e di quando conobbe e di come poi riuscì a conquistare la madre delle sue adorate piccole donne.

Nella seconda parte del libro il racconto è invece affidato alla signora March.
Come tutti sappiamo dalla lettura di “Piccole donne” Marmee riceve un telegramma nel quale le comunicano che il marito gravemente ammalato è stato ricoverato in un ospedale militare a Washington.
Quanto lei giunge al Blank Hospital fatica a riconoscere quel corpo che giace febbricitante in un letto disfatto, un corpo che la vita sembra già aver quasi abbandonato.

Marito e moglie dovranno fare i conti con un ingombrante passato, con verità nascoste e parole non dette per ricostruire il loro rapporto e preservare così l’integrità della loro amata famiglia.

La signora March scoprirà cose insospettate sulla vita del marito e dovrà ammettere almeno con se stessa di aver sbagliato a tacere al marito ciò che le pesava sul cuore.
Ripenserà a quando avrebbe dovuto opporsi all’idea del marito di arruolarsi nonostante l’età già matura o a quando non avrebbe dovuto lasciar passare sotto silenzio la perdita di tutte le loro ricchezze per l’avventatezza di lui seppur per una causa giusta e umanitaria.

Il signor March da parte sua dovrà essere abbastanza forte da capire che è giunta l’ora per lui di mettere da parte l’orgoglio e riuscire a convivere con i propri sensi di colpa e i rimorsi per gli errori commessi.

Della storia raccontata da Geraldine Brooks fanno parte moltissimi personaggi reali e d’invenzione.

Troviamo nomi noti come Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau, che furono nella realtà non solo due tra gli amici più intimi di Amos Bronson Alcott, ma anche due tra i maggiori rappresentanti della cultura e della filosofia del trascendentalismo.

Il personaggio più riuscito è però quello di Grace, la schiava del signor Clement, che March conosce in giovane età quando da umile commesso viaggiatore era stato ospite a casa di questi.
Grace è giovane, bellissima, intelligente, ha un portamento fiero e i suoi gesti sono sempre eleganti e pacati.
Nonostante sembri così perfetta anche lei però nasconde dei segreti.
La donna apparirà più volte nella vita del reverendo March e ogni volta gli ricorderà con la sua presenza errori e debolezze della sua vita passata.
Eppure Grace lo ha perdonato, lei non l’ha mai giudicato perché nonostante le apparenze anche lei come ogni essere umano ha il suo fardello di errori e rimorsi che pesano sulla coscienza, ma lei al contrario degli altri accetta di conviverci per poter espiare attraverso il lavoro e le opere buone le sue colpe, se di colpe si può veramente parlare.

Ancora una volta Geraldine Brooks è stata bravissima ad indagare l’animo umano attraverso i suoi personaggi ed allo stesso tempo a spingere il lettore a riflettere sui dubbi, sulle incertezze, sulle paure che animano i protagonisti del romanzo.

Chi ha amato “Piccole donne” o ha apprezzato gli altri libri di Geraldine Brooks non potrà che rimanere affascinato ancora una volta dall’opera di questa scrittrice.


Della stessa autrice da me recensiti vi ricordo anche:




domenica 24 maggio 2015

“I dolori del giovane Werther” di J.W. Goethe (1749 – 1832)

I DOLORI DEL GIOVANE WERTHER
di Johann Wolfgang von Goethe

“I dolori del giovane Werther“ romanzo epistolare pubblicato nel 1774, procurò fin da subito al giovane Goethe un successo europeo e lo rese al tempo stesso il dominatore principale della scena letteraria tedesca.

Protagonista del romanzo è Werther, un giovane di buona famiglia, colto, amante del disegno e della letteratura classica.
Desideroso di allontanarsi dalla città trova rifugio a Wahlheim un villaggio della campagna tedesca e qui conosce Charlotte.

Lotte, orfana di madre, ha cresciuto da sola le sorelle ed i fratelli più piccoli ai quali è legata da profondo affetto; è una ragazza bellissima dotata di acume e di intelligenza non comuni.

Il carattere appassionato e l’anima ardente di Werther trovano piena corrispondenza in quelli di Charlotte che purtroppo però è già promessa sposa ad Albert, un uomo tranquillo, pragmatico e noioso.

Albert, pur comprendendo i sentimenti che legano Werther alla sua futura sposa, lascia che i due si frequentino concedendo egli stesso la propria amicizia al giovane Werther.

Werther, fortemente provato dall’intensità dei propri sentimenti che non riesce a reprimere, decide di allontanarsi da Charlotte.
Lascia Walhheim e accetta un posto presso un ambasciatore, ma ben presto disgustato dall’ipocrisia della società e avvertendo sempre più pesantemente la mancanza della donna amata, ritorna da lei che nel frattempo ha sposato Albert.

Al ritorno di Werther, Albert preoccupato che le malelingue possano nuocere al buon nome della moglie e della famiglia, chiede a questa di allontanare il giovane e di frequentarlo meno assiduamente.

Lotte vorrebbe compiacere il marito, ma si rende conto di quanto ormai lei stessa sia profondamente legata a Werther e un giorno questi riesce a strapparle un bacio.
Questo unico bacio sarà il congedo definitivo di Werther da Lotte e dalla vita stessa. Qualche ora dopo, infatti, il giovane si ucciderà con un colpo di pistola.

L’origine dell’opera ha una natura biografica. Goethe due anni prima di scrivere il romanzo si era innamorato di Charlotte Buff, la quale era fidanzata con il suo amico Kestner. Goethe aveva dovuto trovare la forza di rinunciare al suo amore impossibile e disperato, ma qualche anno dopo quegli stessi sentimenti repressi grazie alla sua forza di volontà e al suo invidiabile autocontrollo, trovarono vita attraverso le pagine del suo “Werther”, abbreviazione del titolo con il quale spesso viene ricordato il libro.

Werther è un eroe romantico, egli è l’anima gentile che detesta l’ipocrisia della società borghese incarnata invece da Albert che, al contrario di Werther, si sente a proprio agio nella routine.

I luoghi comuni e le convenzioni imposte dalla società sono liberamente accettati da Albert che le sente proprie mentre per Werther sono costrizioni dolorose e inaccettabili.
Proprio per questo Werther si trova a proprio agio con i bambini e con i contadini ovvero con quelle persone che possono essere identificate come anime semplici e pure.

In Werther troviamo la concezione totalmente romantica dell’amore e della natura propria dello Sturm und Drang e del successivo Romanticismo.

“I dolori del giovane Werther” colpirono l’attenzione di Ugo Foscolo che prese senza dubbio spunto anche dal romanzo di Goethe per scrivere il suo “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”.

Werther e Ortis troveranno entrambi nel suicidio, nella negazione dell’essere, la sola possibilità di risolvere il conflitto tra natura e ragione, tra passione e dovere.
Per Goethe però è l’amore irrealizzabile ciò che porta il protagonista alla decisione di annientare se stesso, mentre per Foscolo oltre la disillusione dei sentimenti affettivi c'è anche la caduta di ogni illusione politica a portare il protagonista a questa decisione estrema.

Ho riletto “I dolori del giovane Werther” a distanza di anni e come la prima volta non sono riuscita a non farmi catturare dalla trama e lasciarmi coinvolgere dalla passione e dai sentimenti del protagonista.

Ho voluto riproporvi in breve qualche nota su quest’opera perché credo sia uno di quei libri la cui lettura sia irrinunciabile non solo perché influenzò tutta la letteratura successiva, ma soprattutto per la sua bellezza che a distanza di secoli riesce a riscuotere sempre un successo straordinario facendone uno dei classici più amati e famosi della letteratura mondiale.

“I dolori del giovane Werther” è uno di quei libri da tenere sul comodino per averlo sempre a portata di mano perché come diceva Italo Calvino:

D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.





domenica 17 maggio 2015

“L’Italia nello specchio del Grand Tour” di Cesare De Seta

L’ITALIA NELLO SPECCHIO
DEL GRAND TOUR
di Cesare De Seta
RIZZOLI
Il fulcro di questo saggio è il Paese reale, così come esso viene “scoperto” dalla coscienza europea in età moderna. La complessa e aggrovigliata esperienza del Grand Tour, viaggio di formazione della classe dirigente europea, fu un contributo rilevante alla cultura del cosmopolitismo, in cui è stato fondamentale il ruolo assunto dall’Italia come centro di aggregazione della civiltà nell’Europa moderna.
(tratto dall’introduzione)

Il saggio di Cesare De Seta è un viaggio nell’Italia vista con gli occhi dei tourists che nel corso dei secoli attraversarono il nostro paese regalandoci una specie di immagine di “unità nazionale” ancor prima che il paese stesso divenisse uno stato a tutti gli effetti.

L’Italia come nazione è uno stato giovane, ma agli occhi di coloro che la attraversarono nel passato, seppur una terra divisa politicamente, essa appariva come una terra unita spiritualmente in virtù del suo antico passato, ma anche grazie al suo comune patrimonio artistico ed alle sue incomparabili bellezze naturali.

L’Italia per la sua collocazione geografica e per ragioni legate più propriamente alla sua millenaria civiltà fu interessata dal passaggio di pellegrini fin dall’epoca medievale. Proprio dall’XI secolo inizia il racconto del prof. De Seta per soffermarsi poi ampiamente sui secoli XVII e XVIII, secoli interessati dal Grand Tour vero e proprio.

L’autore del saggio ha deciso di suddividere alcuni capitoli in base alla diversa nazionalità di appartenenza dei viaggiatori. Abbiamo così pagine dedicate al popolo britannico (inglesi, gallesi, scozzesi e irlandesi), al popolo francese e a quello tedesco.

Per stessa ammissione del prof. De Seta i viaggiatori di queste nazioni non furono i soli a viaggiare attraverso l’Italia. Ci furono, infatti, anche viaggiatori provenienti dal profondo nord e dall’est europeo, ma purtroppo a causa della mancanza di documentazione relativa ai loro viaggi, vuoi per la lingua in cui furono redatti i loro diari vuoi per la difficile reperibilità dei documenti, non è stato possibile per l’autore dare loro spazio all’interno di questo volume.

Pagina dopo pagina veniamo a conoscenza di quali siano state le modifiche a cui i viaggi furono soggetti nel corso dei secoli (mezzi di trasporto, spese, compagni di viaggio ecc.). 

Possiamo comprendere inoltre come nel corso degli anni si modificarono i gusti dei viaggiatori così che le stesse città visitate in un periodo storico piuttosto che in un altro cambiarono la loro forza attrattiva agli occhi dei tourists.

Interessante leggere di come al variare dei gusti dei viaggiatori in base al mutare delle mode e degli stili artistici/architettonici del tempo una città potesse essere dichiarata più o meno bella ed interessante di un’altra.

Non è poi da trascurare l’influenza che ebbero gli scavi archeologici e il conseguente interesse per le antichità.

Così ad esempio città come Napoli acquistarono nei secoli sempre più interesse e l’Italia meridionale e la Sicilia che all’inizio non erano neppure contemplate nelle guide turistiche nel corso dei secoli divennero pian piano delle tappe fondamentali.

Il numero impressionante di note e le nutrite fonti consultate fanno di “L’Italia nello specchio del Grand Tour” un saggio esaustivo e ben costruito.
Innumerevoli sono i personaggi di cui ci parla il prof. De Seta che hanno attraversato il nostro paese, alcuni molto famosi come Goethe altri sinceramente a me sconosciuti prima della lettura di questo volume.

Il libro è interessante, completo e approfondito, ma tutto ciò lo rende un testo non sempre scorrevole, spesso un po’ troppo impegnativo e a volte la sua lettura richiede un notevole sforzo di concentrazione da parte del lettore.

L’argomento trattato è comunque talmente singolare ed interessante che se non vi lascerete spaventare dalle difficoltà e deciderete di affrontarne la lettura, non rimarrete delusi ed ogni vostro sforzo sarà ampiamente ricompensato.