lunedì 29 settembre 2014

“Sono ancora un bambino (ma nessuno può sgridarmi)” di Giancarlo Giannini

SONO ANCORA UN BAMBINO
(ma nessuno può sgridarmi)
di Giancarlo Giannini
LONGANESI
Giancarlo Giannini nasce a La Spezia nel 1942. Nella città ligure trascorre la sua infanzia fino all’età di otto anni quando il padre viene trasferito a Napoli per lavoro.
Il padre di Giannini è un padre piuttosto assente e così egli trascorre le sue ore soprattutto con il nonno, il suo primo maestro di vita.
Un ruolo fondamentale nella sua infanzia lo hanno anche la nonna e le zie, le sorelle della madre; proprio nella cucina della nonna nasce la passione di Giannini per il cibo.
L’attore ama quei profumi e quei sapori che lo fanno sentire a casa in qualunque posto si trovi e forse proprio per questo motivo ha scelto di iniziare la sua biografia parlandoci della ricetta del pesto.
Non ha mai avuto comportamenti da star e non ha mai avanzato assurde pretese; l’unica sua richiesta durante le riprese in giro per il mondo è stata quella di avere una stanza con un angolo cottura dove, finito il lavoro sul set, potersi rifugiare a cucinare, un valido espediente per riuscire a rimanere fedeli a stessi ed alle proprie origini.
Quando a otto anni si trasferisce a Napoli con i genitori e la sorella, incontra un mondo completamente nuovo.
Quello ligure è un popolo tenace e testardo, i napoletani sono solari e fantasiosi; Giannini fa sue tutte queste caratteristiche.

Leggendo la sua biografia, incontriamo un perfezionista, un uomo che ama lo studio e la preparazione, ma che allo stesso tempo si scopre essere un uomo aperto all’innovazione, alla ricerca dell’escamotage per superare gli intoppi che possono nascere durante le riprese, un uomo per cui la recitazione è finzione e soprattutto gioco.

A Napoli frequenta un istituto tecnico elettronico; quelle per la fisica, l’elettronica e la scienza sono per lui delle vere passioni tanto che ancora oggi egli si considera un elettronico mancato.

Giannini approda al teatro in maniera piuttosto casuale, ha già conseguito il diploma in elettronica, quando viene invitato a salire sul palco per sostituire un attore assente ad uno spettacolo messo in scena dagli amici di un amico, spettacolo al quale egli era solito assistere e del quale conosceva ormai tutte le battute.
Il regista dello spettacolo riconosce subito il suo potenziale e lo incoraggia ad iscriversi all’accademia.
Giannini decide di darsi una possibilità come attore e si iscrive alle selezioni per entrare all’accademia di arte drammatica Silvio D’Amico dove non solo viene preso, ma ottiene anche una borsa di studio.
Due soli anni di accademia a Roma e la sua carriera inizia a decollare, fin da subito si esibisce infatti per grandi platee e condivide la scena con attori già affermati.

Giancarlo Giannini ci parla molto della sua infanzia, ma ci racconta pochissimo della sua vita privata; una scelta, quella di difendere la sua privacy, che egli ha mantenuto rigorosamente sin dagli esordi.
Non manca invece di raccontarci numerosi episodi ed aneddoti legati alle persone che ha incontrato durante la sua lunga ed intensa carriera che lo ha visto lavorare in teatro, recitare per il cinema sotto la direzione dei più grandi registri italiani e stranieri, essere regista lui stesso oltre che doppiatore di famosissimi attori hollywoodiani tra cui Jack Nicholson, Mel Gibson, Al Pacino, Dustin Hoffman, Michael Douglas.
La sua è una vita fatta di incontri con i grandi del teatro, ma soprattutto del cinema. Ha conosciuto e recitato con straordinarie attrici e importanti attori: Anna Magnani, Monica Vitti, Mariangela Melato, Stefania Sandrelli, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Alain Delon, Keanu Reeves, solo per citarne alcuni, ma sono davvero tantissimi.
Così come sono tantissimi gli straordinari registi con i quali ha avuto l’onore e il privilegio di lavorare e dei quali in queste pagine ci racconta particolarità e curiosi episodi: da Luchino Visconti a Lina Wertmuller, da Fassbinder, a Monicelli, da Pupi Avati a Franco Zeffirelli… e volendo citare qualche americano possiamo ricordare Ridley Scott, Spielberg….

Giancarlo Giannini si definisce “ancora un bambino”, ma leggendo queste pagine ne esce un personaggio piuttosto contraddittorio.
Un uomo estroverso ed introverso allo stesso tempo, un bambino per la sua voglia di recitare e giocare, di costruire oggetti con le proprie mani, di scoprire il mondo, ma anche un uomo che ama i suoi momenti soli, un uomo che desidera la solitudine e non la teme, così come non ha paura della morte perché per lui la morte è il mistero più grande, è il raggiungimento della conoscenza.

Quando leggiamo del Giancarlo bambino che solitario medita sulla spiaggia, ci chiediamo se egli sia mai stato davvero un bambino e allo stesso tempo quando leggiamo del Giannini adulto che entra in un negozio e compra un robot per montarlo e smontarlo affascinato dai suoi meccanismi, comprendiamo perché lui si ritenga ancora tale.
Inevitabilmente si sovrappongono davanti ai nostri occhi le immagini di un bambino già adulto e quella di un adulto ancora bambino.

Giannini affascina il lettore per la sua energia, la sua sete di conoscenza, per il suo desiderio di capire come siano fatte le cose, per l’entusiasmo che prova nel costruire oggetti con le proprie mani; stupisce il lettore con le sue passione per la fotografia e la pittura e lo sbalordisce con i brevetti delle sue invenzioni.

Si scopre così una persona che non perde occasione per mettersi in gioco, che non si tira mai indietro, che accetta le sfide perché gli permettono di cercare di raggiungere quella famosa asticella che qualcun’altro prima di lui ha posto lassù in alto e che, se possibile, vorrebbe egli stesso riuscire ad alzare ancora un poco per chi ci proverà dopo di lui.

Io sono sempre stato un artigiano della recitazione. Non ho mai improvvisato, ho sempre avuto una preparazione molto solida alle spalle.

Interessante leggere il pensiero di un attore del suo calibro sui vari metodi di interpretazione.
Per Giannini recitare è un gioco, è finzione e in quanto tale il personaggio deve essere interpretato dall’attore facendo propria la parola chiave “creatività”.
Ad Hollywood è tutto diverso; secondo l’acclamato metodo dell’Actors Studio, infatti, l’attore deve calarsi nella parte, deve immedesimarsi nel personaggio stesso.

Loro hanno gente che entra nel personaggio, stando male come stanno male nella finzione. Ma non scherziamo, ragazzi, io mica sono per quella scuola. Io interpreto un personaggio. Io lavoro sul personaggio. Non fatemi fare troppi sforzi, dai, su. E ` solo un gioco.

Giannini ripete spesso che recitare è un gioco, “to play” in inglese vuole dire sia giocare che recitare, ma è un gioco serio perché l’attore ha comunque delle responsabilità ben precise nei confronti del pubblico:

Noi attori abbiamo un dovere nei confronti degli altri: siamo privilegiati, e il risarcimento verso chi ci guarda deve essere chiaro, netto, immediato. Abbiamo il dovere di ricordare a tutti che c’è un’alternativa alla realtà, alla logica, all’omologazione e all’istinto.

Ci sono poi pagine bellissime sul comprendere che tipo di regista l’attore si trovi di fronte.
Secondo Giannini già alla seconda scena si può comprendere se il registra è un illuminato o un mediocre.
Nel primo caso si può aprire un dialogo fatto di proposte e controproposte, il tutto porterà a produrre qualcosa di eccellente e mai visto prima.
Nel secondo caso, Giannini suggerisce, di fare quello che il regista chiede, senza discutere tanto sarebbe solo tempo sprecato oltre a portare solo una sofferenza atroce.
Giannini ovviamente lo applica al suo mondo, quello del set cinematografico, ma è indubbiamente un valido suggerimento per ognuno di noi qualunque sia la nostra occupazione.
                                                                                                                               
Giancarlo Giannini è un personaggio vulcanico e per sua stessa ammissione sempre in continuo movimento:

Devo avere idee, altrimenti mi spengo. Devo sperimentare, pensare, creare, altrimenti è come entrare in letargo e buttare via qualcosa di prezioso. Non mi sono mai fermato, in tutta la mia vita.

“Sono ancora un bambino (ma nessuno può sgridarmi)” è un libro un po’ disordinato, dirompente e frenetico come il suo autore.
Fa sorridere il fatto che un’autobiografia di un attore che usa la carta millimetrata per disegnare assi cartesiane sulle quali riportare gli stati d’animo del personaggio che deve interpretare e che disegna una griglia a colori per ricordare quali personaggi si incontrino nelle varie scene, sia così “caotica” inteso ovviamente nel senso buono del termine.
Giannini riesce a catturare l’attenzione del lettore e a mantenerla viva pagina dopo pagina grazie anche a questi continui “salti” del racconto che non sempre segue una linearità temporale.

Perché leggere questo libro?
Perché è interessante leggere di un personaggio così versatile, capace di interpretare ruoli comici e drammatici con la stessa intensità e bravura, un uomo dotato di grande spiritualità ed allo stesso tempo di un notevole senso pratico.
Perché racconta la storia del cinema italiano con qualche assaggio del mondo hollywoodiano al quale l’Italia non dovrebbe invidiare nulla.
Perché fa venire una voglia matta di riscoprire il nostro cinema e di andare a rivedersi tutti i vecchi film per capire, conosce e approfondire.




domenica 21 settembre 2014

“Chiara di Assisi” di Dacia Maraini


CHIARA DI ASSISI
Elogio della disobbedienza
di Dacia Maraini
RIZZOLI

Dacia Maraini scrive che sono i personaggi a chiederle di essere raccontati, si presentano alla sua porta per un tè e poi magari domandano di restare anche per la cena e a volte chiedono pure un letto per la notte; a quel punto lei capisce che è giunto il momento di scrivere un nuovo libro.

Se ci soffermiamo a riflettere un momento, non è poi così diversa la dinamica che spinge un lettore a scegliere un libro. Spesso, infatti, è lo stesso libro a sceglierci e non viceversa.

Così è accaduto che “Chiara di Assisi” di Dacia Maraini mi abbia scelta…
Un giorno di luglio, una delle tante domeniche piovose che hanno caratterizzato la nostra estate, mi sono imbattuta per caso nella replica di una puntata di “Visionari”, la trasmissione di Corrado Augias.
La puntata era dedicata a Chiara di Assisi; ospiti in studio Dacia Maraini, la professoressa Chiara Frugoni e Giacomo Galeazzi.
Non sono particolarmente religiosa, come tanti sono cattolica non praticante, e ad essere sincera avevo una conoscenza solo superficiale di Santa Chiara, la cui figura spesso è stata messa in ombra dall’immensa figura di San Francesco.
Sono rimasta però talmente affascinata da questa donna che al ritorno dalle vacanze ho deciso che era giunto il momento di cercare di scoprire chi fosse veramente Chiara e, quasi senza rendermene conto, mi sono ritrovata a leggere il volume di Dacia Maraini.

E’ fondamentale quando si decide di avvicinarsi a questa figura di donna, poi divenuta santa, non dimenticare mai che non può e non deve essere giudicata in base a criteri moderni.
Chiara, come la stessa Dacia Maraini sottolinea più volte, è una giovane del suo tempo e come tale ha compiuto delle scelte, comportandosi in modo che ai nostri occhi potrebbe sembrare banale, forzato o talvolta persino scontato, ma che nella realtà dei fatti per lei non lo fu affatto.

Il libro non lo si può definire né un romanzo né un saggio.
La Maraini trova un simpatico e devo dire molto ben riuscito escamotage per introdurre la storia di questa mistica.
Inventa una misteriosa corrispondenza con una ragazza siciliana, tale Chiara Mandalà, che la invita a scrivere di quella santa che porta il suo stesso nome.
Il racconto assume quindi dalle prime pagine uno stile epistolare per poi passare ad una forma diaristica in cui la scrittrice giorno per giorno annota non solo quanto apprende su Chiara di Assisi nel corso delle sue ricerche, imponente la bibliografia consultata, ma anche le sue stesse impressioni su questa straordinaria figura femminile del Duecento.

Chiara Mandalà è una ragazza strana che ad un certo punto sparisce dal racconto, permettendo così alla scrittrice di seguire la propria personale ricerca sulle orme della santa di Assisi, salvo poi farsi nuovamente viva alla fine del racconto per discutere delle conclusioni tratte dalla Maraini su quanto appreso.

La motivazione addotta da Chiara Mandalà alla domanda del perché per lei sia così importante che uno scrittore o una scrittrice scriva questo libro è in apparenza priva di senso: Chiara non riesce a capire se stessa e ritiene semplicemente che se qualcuno, Dacia Maraini è la sua seconda scelta, scrivesse di Santa Chiara, lei finalmente sarebbe in grado di trovare la sua strada.

Oltre al nome, le due Chiara hanno in comune un rapporto conflittuale con il cibo: Chiara Mandalà è anoressica e per quanto riguarda Santa Chiara è risaputo che digiunasse spesso e mangiasse comunque pochissimo.

Leggendo la vita di Santa Chiara e l’importanza che per lei assunse il digiuno, si ha quasi l’impressione che i disturbi alimentari, così comuni nella società moderna, nascano quasi da uno stesso desiderio di spiritualità.  

Spiritualità che nel caso della santa fu di origine religiosa, ma che nel mondo contemporaneo potrebbe essere anche di natura diversa.
E’ come se il corpo sia considerato un impedimento per raggiungere l’io più profondo o il divino e per questo motivo si decida di boicottarlo privandolo del naturale sostentamento.

E’ come se il corpo fosse qualcosa che impedisce di raggiungere lo spirito, Il piacere della tavola le era diventato molesto, come il sapore della costrizione, il sapore dell’obbligo.

Chiara rifiutava infatti tutto ciò che era imposizione compreso il bisogno del cibo.

Entrambe le Chiara inoltre sono vergini, non solo il corpo viene quindi punito con la fame, ma viene privato anche di ogni altro piacere che possa distogliere la persona dalla più profonda spiritualità e dal raggiungimento della piena libertà.

Ma chi era Chiara di Assisi?

Chiara ha scelto la povertà assoluta. Ha abbandonato una stanza addobbata, un matrimonio agiato, una casa, dei camini accesi, vesti di broccato, gioielli, buon cibo, l’affetto dei suoi, per andare ad abitare in una bicocca, al freddo, dormendo su un sacco riempito di foglie su un pavimento gelido, contando solo su un poco di cibo elemosinato.

Partendo da queste premesse Dacia Maraini rende partecipe il lettore del suo viaggio alla ricerca delle motivazioni che spinsero una giovanissima e bellissima ragazza a compiere scelte così drastiche.
La Maraini si interroga sul perché Chiara abbia deciso di seguire Francesco.
Sembra impossibile che una giovanissima donna, praticamente una ragazzina, potesse avere una volontà così ferrea da scegliere una strada così difficile; una scelta della quale, non dimentichiamolo, non si pentì mai.
Chiara, pur giovanissima, si innamorò dell’ideale francescano a tal punto da sacrificare tutto per sposare la povertà.
A Francesco dobbiamo riconoscere il grande merito di essere riuscito a trovare una tanto risoluta e virtuosa seguace, senza nulla togliere ovviamente alla vocazione di Chiara che fu vera e profonda.

Viene inoltre spontaneo chiedersi quanto sulla scelta di Chiara abbia influito il rifiuto del matrimonio.
Dobbiamo ricordare che le donne nel medioevo avevano solo due possibilità: il matrimonio o il convento. Chiara scelse liberamente il secondo, ma non ci sono certezze che fosse stata indotta a ciò per sfuggire al primo.
Di certo però sappiamo che, se anche il desiderio di evitare il matrimonio le fece scegliere il convento, lei non si pentì mai della sua scelta, tanto che diventata badessa del convento di San Damiano per volere di San Francesco, non rivendicò mai per se stessa il ruolo di protagonista, ma anzi spesso, come si evince dalle testimonianze tratte dal processo per la sua canonizzazione, compì lei stessa i compiti più umili e non disdegnò neppure di gettarsi ai piedi delle monache per convincerle dei loro errori e riportarle sulla retta via .

Ma nonostante questo buono e mite carattere Chiara di dimostrò sempre irremovibile nei suoi proposti e, facendo appello a tutta la sua dolcezza, perseguì sempre il suo fine:

Et mai non podde essere inducta né dal papa né dal vescovo Hostiensi che recevesse possessione alcuna.

Possedere qualcosa significa doverlo difendere e nel difenderlo diventare schiavi di quel qualcosa; Chiara desiderava la libertà, non voleva vincolo alcuno, nessuna imposizione.
La povertà diventa un privilegio laddove non è imposta, ma è decisa per libera scelta.

La libertà non è soltanto arbitrio, la libertà non è rifiuto delle regole o chissà quale altra diavoleria.
Esiste anche la libertà della curiosità, della scoperta, della conoscenza, dello scambio, del vagabondaggio.

Potrei parlarvi ancora per ore di questo libro: bellissime sono ad esempio le immagini della vita nel convento di San Damiano, potrei raccontarvi della malattia di Chiara e del suo modo di affrontarla, un’invalidità che la costrinse a letto dai trenta ai cinquantanove anni, ma davvero vorrei che scopriste da soli questa donna, non solo per la sua religiosità della quale ovviamente era impregnata, ma per la forza e per la dolcezza che emanava quella sua esile figura che sapeva essere contemporaneamente mite ed energica, remissiva e potente, tanto da riuscire a modificare le regole del suo tempo.

“Chiara di Assisi” è un libro affascinate come la sua protagonista, interessante e ben documentato, che vi conquisterà sin dalle prime pagine.
Un ottimo punto di partenza inoltre per chi volesse in seguito approfondire l’argomento.



domenica 14 settembre 2014

“La nascita di Venere” di Sarah Dunant

LA NASCITA DI VENERE
di Sarah Dunant
SUPERBEAT
Il romanzo si apre con un prologo che introduce il personaggio di sorella Lucrezia, un’anziana monaca ormai malata e vicina alla morte.
Una suora pia e caritatevole, ma molto taciturna e della quale nessuno conosce la storia.
Si mormora però che al suo ingresso in convento, avvenuto trent’anni prima, la monaca non avesse lasciato del tutto fuori la sua vanità così come libri e dipinti di cui sembra fosse stato pieno il suo cassone, oggetti che all’inizio del XVI secolo erano poi stati banditi secondo le disposizioni della nuova legge suntuaria.

Finito il prologo inizia la storia vera e propria presentata come il testamento di sorella Lucrezia e non è difficile comprendere immediatamente che il racconto che leggeremo altro non è che la storia della stessa monaca da lei raccontata in prima persona.

Protagonista del racconto è la giovane Alessandra Cecchi, quarta figlia di un prestigioso e ricco mercante di stoffe fiorentino, padre di altri tre giovani: Plautilla, prossima alle nozze, e gli scapestrati Luca e Tomaso.
Alessandra è la minore dei quattro fratelli e non è particolarmente legata a nessuno di loro: ritiene Plautilla troppo sciocca e frivola mentre con Luca e Tomaso è sempre in aperto contrasto. Tomaso, il fratello bello e vanesio, inoltre non perde occasione di stuzzicarla e lanciarle pesanti frecciate per il suo aspetto “da giraffa”.
Alessandra Cecchi è, infatti, una ragazza interessante ed intelligente, ma non può essere definita una bellezza secondo i canoni dell’epoca.
Ama lo studio e le lettere, conosce il greco e parla correntemente latino. Sopra ogni cosa però Alessandra è appassionata di pittura e ama disegnare; sogna un giorno di poter ottenere una commissione tutta sua che le permetta di mettere a frutto la sua arte, desiderio irrealizzabile per una donna del suo tempo tanto più considerata l’estrazione sociale di appartenenza.
Al ritorno da un viaggio di lavoro, il padre conduce con sé un giovane pittore fiammingo per far dipingere la cappella di famiglia e la ragazza resta affascinata da questo giovane misterioso ovviamente non solo per le sue capacità artistiche.
All’epoca in cui Alessandra vive, sono solo due le scelte di vita possibili per una donna: il matrimonio e il convento.
Poiché Alessandra, curiosa e piena di vita com’è, morirebbe ad essere rinchiusa in un monastero, si vede costretta ad accettare il vincolo matrimoniale.
Non ha neppure quindici anni quando va in sposa ad un uomo molto più anziano di lei che potrebbe esserle padre.
Cristoforo Langella è un nobile fiorentino, un uomo molto colto e amante dall’arte tanto da vantare una discreta collezione di sculture e non solo nella propria dimora.
Cristoforo è apparentemente affascinato dalla viva intelligenza di Alessandra e sigla con lei un patto per il quale, una volta divenuta sua moglie, la ragazza potrà dedicarsi agli studi e all’arte come più le aggrada, unica richiesta evitare scandali.
Alessandra però capirà fin troppo presto che quel patto che a lei sembrava così vantaggioso, in realtà nasconde numerose insidie e la sua vita non sarà più la stessa.

Il romanzo è affascinante come il periodo storico in cui è ambientato, periodo storico che Sarah Dunant è riuscita a rendere in maniera superba in tutta la sua brutalità, bellezza e vitalità.

Pagina dopo pagina il lettore viene sempre più immerso nell’atmosfera della Firenze di fine Quattrocento e primo Cinquecento.

L’epoca in cui è ambiento “La nascita di Venere” è il periodo di passaggio dalla Signoria alla Repubblica.

Alessandra Cecchi nasce all’epoca in cui signore di Firenze è il grande Lorenzo De’ Medici detto Lorenzo il Magnifico e assiste all’ascesa di Girolamo Savonarola, il frate che profetizza sciagure per Firenze e si adopera con ogni mezzo, senza preoccuparsi di utilizzare anche metodi repressivi, affinché la città ritrovi fede e costumi morigerati.
Morto il Magnifico, sotto l’influenza del Savonarola e complice una politica incerta da parte del successore di Lorenzo De’ Medici, Piero De’ Medici, il quale non riesce a fronteggiare l’arrivo dell’esercito di Carlo VIII, giunto in Italia per rivendicare i diritti degli Angioini sul Regno di Napoli, Firenze diviene Repubblica.

Attraverso la storia di Alessandra Cecchi e della sua famiglia apprendiamo come dovesse essere la vita quotidiana dell’epoca.
Leggendo la sua storia la accompagniamo per le strade della Firenze medicea, ammiriamo le opere d’arte tra cui i famosi affreschi del Ghirlandaio in Santa Maria Novella, entriamo nelle numerose chiese fiorentine, la accompagniamo nel quartiere abitato dai tintori, passeggiamo di notte per le strade poco sicure della città condividendo con Alessandra la paura di essere scoperti dalle ronde dopo il coprifuoco, con lei assistiamo al grande falò delle vanità indetto da Savonarola nel quale i fiorentini furono “inviati” a sacrificare quanto di più prezioso possedessero per eliminare ogni oggetto peccaminoso.
Le pagine del romanzo ci raccontano della condizione della donna, quella degli schiavi e della servitù nonché del trattamento riservato ai sodomiti da Savonarola e dai suoi seguaci.

“La nascita di Venere” è un libro avvincente sia grazie ai suoi bellissimi personaggi sia ad una trama magistralmente sviluppata che ci parla di passione, compromesso, arte, storia; un racconto che si tinge persino di giallo grazie ad una serie di inspiegabili omicidi a sfondo sessuale il cui colpevole sembra avvolto dal mistero.

Un libro assolutamente imperdibile per chiunque ami i romanzi storici.



martedì 9 settembre 2014

“Le due vie del destino” di Eric Lomax

LE DUE VIE DEL DESTINO
di Eric Lomax
VALLARDI
“Le due vie del destino” (titolo originale “The railway man”) è un romanzo autobiografico.

Fin da piccolo Eric Lomax ebbe una grande passione per le ferrovie e le locomotive.
Lasciò la scuola molto giovane perché non particolarmente motivato dalle materie che venivano insegnate ritenute troppo lontane dai suoi veri interessi.
Entrò all’età di sedici anni, dopo regolare concorso, a lavorare in posta partendo dalla gavetta.
Con lo scoppio della seconda Guerra Mondiale venne arruolato nei Corpi Reali dei Trasmettitori e, dopo diverse assegnazioni, venne inviato in missione in India e da qui in Malesia.
Il romanzo è il racconto dei suoi anni di prigionia in mano ai giapponesi.
Per un triste scherzo del destino, lui così appassionato di treni, venne proprio impiegato dai suoi carcerieri nella costruzione della ferrovia della morte tra Birmania e Siam insieme a migliaia di altri prigionieri.

Avevano intenzione di costruire una linea ferroviaria attraverso le aguzze catene montuose tra Birmania e Thailandia, un percorso così terribile che gli ingegneri coloniali britannici l’avevano rifiutato perché troppo pericoloso.

Quando i giapponesi scoprirono che Lomax e i suoi compagni erano riusciti a costruirsi una radio, seppur rudimentale, con la quale erano però in grado di ascoltare le trasmissioni delle forze alleate e della BBC, la loro situazione peggiorò.
In particolare la situazione di Eric Lomax si aggravò terribilmente nel momento in cui il Kempeitai, la famigerata polizia segreta giapponese, quella che potrebbe essere definita la Gestapo nipponica, scoprì che egli aveva disegnato una mappa del tracciato della ferrovia.
Le torture fisiche e psicologiche subite dai prigionieri furono terribili e quando Lomax riuscì a tornare in patria al termine del conflitto, non solo trovò un mondo completamente diverso e a lui estraneo, ma dovette combattere contro difficoltà e disagi per cercare riprendere in mano, almeno parzialmente, la propria vita.
Fu solo grazie all’amore di una donna straordinaria, la sua seconda moglie, incontrata guarda caso proprio in una stazione, una donna canadese di 17 anni più giovane di lui e all’aiuto fornitogli dalla Fondazione Medica per la Cura delle Vittime della Tortura, che Eric Lomax riuscì ad affrontare il suo passato e trovare persino il coraggio di incontrare personalmente il nemico, nella figura di Nagase Takashi, l’interprete che aveva preso parte alle torture inflittegli durante gli interrogatori del Kempeitai.

“Le due vie del destino” racconta una storia complessa, emozionante e inquietante; una storia terribilmente vera in tutta la sua tragicità e la sua crudeltà; racconta di come un uomo semplice e tranquillo sia stato costretto con ogni mezzo a trovare in se stesso una forza incredibile ed un coraggio straordinario per cercare di sopravvivere all’orrore nel quale la vita lo aveva scaraventato.
                                                                                                                            
A tutti noi è capitato di leggere romanzi ambientati durante il secondo conflitto mondiale o vedere film sull’argomento, potrei ad esempio citare il famoso film del 1957 diretto da David Lean intitolato “Il ponte sul fiume Kwai”, ma si rimane sempre nella finzione storica, spesso falsata e che ci fornisce una versione edulcorata dei fatti.
E’ ben diverso leggere le parole scritte da chi certe esperienze le ha vissute sulla propria pelle; ha dovuto convivere con la paura, la tensione, le torture; è stato costretto a subire una violenza psicologica spesso peggiore anche di quella fisica.

Ho scritto dell’insicurezza che divora la mente di un prigioniero e riempie i giorni di angosciosa tensione – l’unica cosa sicura era che ci trovavamo sull’orlo del precipizio.

E’ quasi impossibile riuscire a concepire che uomini come Lomax siano riusciti ad uscire vivi da un’esperienza di reclusione così estrema e devastante.

(…) avere qualche brandello di informazione serviva a tenerci su di morale e a farci sentire in contatto col mondo che avevamo perduto. Per noi prigionieri la radio aveva un’importanza difficile da immaginare, donava letteralmente senso e normalità alle nostre vite; ci sembrava, ora, di avere una ragione per vivere.

E’ spaventoso leggere di come questi prigionieri siano stati spogliati di ogni cosa, sfruttati e umiliati, ma soprattutto di come siano stati privati della loro dignità di esseri umani.

Anche leggere era una parte importante di quella normalità, un modo per conservare la dignità.

Tutti i torturatori furono condannati, solo uno di questi si salvò. Lomax lo cercò per tutta la vita, pur non avendo alcun nome, ma solo una voce.
La vendetta fu l’obiettivo a cui si aggrappò per trovare la forza di andare avanti.

Alla fine scoprì però che il suo carnefice, colui sul quale aveva concentrato tutto il suo odio, era stato egli stesso una vittima di quell’assurda guerra.
Nagase aveva vissuto anch’egli una vita fatta di incubi, schiacciato dal peso di ciò a cui era stato costretto ad assistere quando era un interprete del Kempeitai.

Lomax ebbe bisogno di vedere il dolore di Nagase per riuscire a convivere con il proprio e a superarlo.
Nagase a sua volta, nonostante avesse passato il resto della sua vita cercando di rimediare agli errori commessi, dedicandosi al ricordo di quanti erano morti per la costruzione della ferrovia, ebbe bisogno del perdono di Lomax per riuscire ad accettare almeno in parte le proprie colpe e cercare di convivere con esse.   

Bellissime le ultime pagine del libro, davvero intense e cariche di tensione emotiva.

Nei prossimi giorni uscirà al cinema il film tratto dal romanzo; a Colin Firth è stato affidato il ruolo di Eric Lomax (Jeremy Irvine interpreterà Lomax da giovane) mentre nel ruolo della seconda moglie di Lomax, Patricia, vedremo Nicole Kidman.
Sono piuttosto curiosa di scoprire come sarà questo adattamento cinematografico.
Indubbiamente Colin Firth, da ottimo attore qual è, sarà senza dubbio un interprete perfetto, sono solo un po’ scettica sul taglio che potrebbe essere stato dato alla storia perché, da quel poco che ho intravisto del trailer, ho avuto l’impressione che siano state apportate modifiche non proprio apprezzabili al testo originale.

Comunque sia, che decidiate di andare o no a vedere il film, il mio consiglio è quello di leggere assolutamente il libro perché “Le due vie del destino” è davvero una testimonianza unica e splendidamente scritta; un romanzo toccante e coinvolgente. 



mercoledì 3 settembre 2014

“Per sempre” di Susanna Tamaro

PER SEMPRE
di Susanna Tamaro
GIUNTI EDITORE
Nora e Matteo sono una coppia felice. Hanno un bambino di nome Davide e sono in attesa di un secondo figlio. Lui è un esperto chirurgo vascolare. La loro è una vita perfetta.
Una domenica però al rientro da una gita, la macchina di Nora sbanda e precipita da un viadotto dell’autostrada.
Matteo che segue la moglie con la propria auto, assiste impotente alla scena, costretto a guardare il terribile rogo che sta distruggendo tutta la sua famiglia.
L’uomo è annichilito dal dolore oltre che dal dubbio, istillatogli in seguito agli accertamenti della polizia stradale, che l’incidente sia stato provocato volontariamente da Nora.
Ogni giorno sprofonda sempre di più nell’abisso: inizia a mentire ai genitori, si stordisce con gli alcolici e trascura il lavoro.
Alla morte del padre, grazie ad una lettera di questi in cui lo esorta a non arrendersi e a perseguire quella “nobiltà dell’animo” che sempre aveva cercato di insegnargli e che a sua volta lui aveva appreso da suo padre, scatta qualcosa in Matteo che finalmente comprende che è giunto il momento di ricucire i pezzi della propria esistenza.
Lascia definitivamente il lavoro all’ospedale e si trasferisci sui monti.
Decide di tornare alla terra, alle cose semplici, ai ricordi di quando da piccolo, ospite a casa dei nonni, passeggiava per i campi.
Osservare la natura lo riavvicina alla vita: il cielo stellato, il trascorrere delle stagioni, la vicinanza degli animali selvatici e l’impegno di prendersi cura di quelli domestici.
Giorno dopo giorno Matteo ritrova se stesso e lassù, sulla sua montagna, dopo aver riparato il proprio cuore ferito è pronto ad aiutare chiunque il caso conduca alla sua porta.
La sua casa è aperta a tutti, per ognuno c’è un pezzo di formaggio, un po’ di vino o anche semplicemente un bicchiere d’acqua fresca.
Matteo non esercita più la professione di cardiochirurgo, ora egli è un medico dell’anima, perché solo chi ha conosciuto un dolore tanto profondo e lacerante può avere la capacità di comprendere la sofferenza e il disagio degli altri.

E’ passato molto tempo da quando lessi “Va’ dove ti porta il cuore”, ricordo che quel libro mi aveva profondamente commossa, ma ricordo anche che mi aveva lasciato una tale malinconia addosso che, nonostante mi fosse piaciuto immensamente, mi ero ripromessa che mai mi sarei avvicinata di nuovo ad un libro di Susanna Tamaro.

Gabrielle Zevin ha scritto “Bisogna incontrare le storie al momento giusto. Le cose che ci colpiscono a vent’anni non sono necessariamente le stesse che ci colpiscono a quaranta, e viceversa. Questo è vero nei libri e anche nella vita”.
Ecco, forse io semplicemente non ero ancora pronta ad affrontare quella lettura, ad accettare certe verità che fanno inevitabilmente parte della vita di ogni essere umano.

Lo scorso anno una cara amica mi ha regalato “Per sempre” costringendomi così a confrontarmi per la seconda volta con un romanzo della Tamaro.
Ho ritrovato le stesse emozioni di quando lessi “Va’ dove ti porta il cuore”, ma probabilmente l’età più matura e le esperienze di vita, mi hanno fornito la forza di poter affrontare queste pagine in un modo più maturo, facendomi trasportare dall’intensità del racconto senza però venirne schiacciata.

Il filo conduttore del romanzo è il dolore della perdita e la capacità che ciascuno di noi ha di affrontarlo.
Non tutti riescono a superare il distacco nello stesso modo, così Matteo non ha la stessa forza che suo padre aveva dimostrato quando appena quattordicenne, per colpa della guerra, perse non solo la vista ma anche che la sorella e il padre.

“Per sempre” è la storia di un amore totale e profondo che supera le barriere del tempo e dello spazio; una lunga lettera ad una persona che fisicamente non c’è più, ma che è ancora ben presente nella vita del protagonista che si rivolge a lei quasi fosse ancora in vita.

Il lungo e faticoso percorso di guarigione che Matteo affronta offre al lettore moltissimi spunti di riflessione.

E’ più che umano quando succede qualcosa di terribile, interrogarsi sui “se” e sui “ma” per riuscire a capire se ciò che è accaduto potesse essere evitato in qualche modo.
Così come è proprio dell’essere umano porsi la fatidica domanda “Perché?” e arrovellarsi il cervello cercando di rispondere ad essa come se riuscire a farsi una ragione di quanto accaduto, dipendesse esclusivamente dal comprenderne le cause, come se non fosse possibile accettare semplicemente che tutto sia dipeso dal caso, dalla sorte, dal destino.

Il romanzo fa riflettere su ciò che davvero conti nella vita come l’importanza dei sentimenti, degli amici e della famiglia…

Solo invecchiando ci si rende conto della gravità di certe parole e tutto ciò che abbiamo mancato – per superficialità, per egoismo, per fretta – comincia a pesare sul nostro cuore, ma il tempo ormai è andato e non torna più.

Ci porta a meditare sul tempo che crediamo ci sia concesso in quantità illimitata, siamo sicuri che il futuro sia nostro e invece quanto meglio sarebbe cercare di vivere ogni giorno pienamente come se fosse l’ultimo a nostra disposizione perché basta così poco perché tutto finisca…

Divertirsi sembra ormai l’unico imperativo del tempo libero.

Che dire poi dell’insensata frenesia che ci coglie nel cercare di riempire ogni attimo, senza mai fermarsi a riflettere su ciò che vogliamo veramente, su ciò di cui abbiamo bisogno, su quello che ci piace davvero?

(…) questo mondo sempre di corsa, affastellato di cose, prigioniero di una volgarità che inquina ogni respiro. Non ho dubbi che la prima cosa che ti avrebbe irritato sarebbe stata senz’altro il rumore. Tra tutte le forme di violenza è quella più sottile, più devastante.

Il nostro assurdo e continuo bisogno di classificare le cose, le persone…

I primi tempi non riuscivo ad accettare questo continuo bisogno di trovare una definizione. Non esisti se non c’è un aggettivo, un nome che aiuti a sistemarti da qualche parte.

E soprattutto la sconsiderata idea che qualunque cosa facciamo debba essere finalizzata a ottenere qualcosa, ossessionati continuamente dalla smania di possedere più di quanto ci sia necessario…

“Qual è il suo lavoro?”
“Produrre le cose che mi servono per vivere.”
“Tutto qui?” commentano, stupiti. “Ma non è un vero lavoro!” 

“Per sempre” è un romanzo che attraverso la storia di un uomo riesce a raccontare la storia dell’umanità.
Un libro elegante e toccante che arriva dritto al cuore del lettore.



domenica 31 agosto 2014

“Da quando sei scomparsa” di Paula Daly

DA QUANDO SEI SCOMPARSA
di Paula Daly
LONGANESI

Lisa è una donna che lavora, ha tre figli, un marito, tre cani ed un numero imprecisato di gatti. Il suo matrimonio con Joe Kallisto è un’unione felice, qualche incomprensione ogni tanto, ma nell’insieme nulla che non possa essere sistemato con amore e tanta buona volontà.
Vive a Troutbeck, un paese sulla sponda orientale del lago Windermere, situato nel famoso Lake District, nella contea della Cumbria.
Il posto è per lo più un luogo di villeggiatura dove il costo delle case è molto elevato, ma Lisa e Joe non si sono mai pentiti della scelta di vita fatta, anche se ciò comporta che entrambi debbano lavorare per riuscire a vivere dignitosamente.
Come ogni donna iperattiva, Lisa è stressata per la mole di lavoro che ogni giorno è costretta ad affrontare: la scuola e i problemi dei figli si sovrappongono al suo lavoro come direttrice di un ricovero per cani e gatti abbandonati, lavoro che la impegna moltissimo, ma che è per lei anche fonte di grandi soddisfazioni.
Lisa ama i cani e i gatti affidati alle sue cure e tutti i giorni combatte affinché questi possano trovare una nuova casa e una nuova famiglia.

Ci sono giorni in cui però Lisa invidia un po’ le donne che non sono costrette a lavorare per far quadrare il bilancio familiare, donne come la sua amica Kate.
Kate Riverty ha due figli, la più grande Lucinda ha l’età di Sally, la figlia maggiore di Lisa, ed il minore Fergus ha l’età di Sam, il più piccolo dei fratelli Kallisto.
I Riverty possiedono diversi cottage che vengono affittati per le vacanze ai turisti e Guy Riverty si occupa della loro gestione.
Grazie a questa redditizia attività, Kate Riverty può permettersi di rimanere a casa con i figli, essere presente a tutte le feste di beneficienza organizzate dalla scuola, dialogare giornalmente con gli insegnanti e cucinare del cibo vero senza essere costretta, come Lisa, a comprare qualcosa di preconfezionato per mancanza di tempo.
Al contrario dell'amica che, sempre di corsa, si ritrova troppo spesso a commettere errori e a dimenticare le cose, Kate Riverty è la donna di casa perfetta, efficiente e sempre presente.

Un giorno Lisa Kallisto compie un errore imperdonabile.
Lucinda, la figlia di Kate, dovrebbe fermarsi a dormire a casa Kallisto per fare una ricerca per la scuola con Sally, ma per un disguido Lisa lo dimentica e quando il mattino dopo comprende quello che è successo è ormai troppo tardi.
Lucinda è scomparsa; dopo la scuola, il giorno prima non è tornata a casa.
Lisa Kallisto, la madre incapace e disorganizzata, si è persa la figlia di Kate Riverty, la madre più efficiente del mondo.
Solo qualche giorno prima una ragazza di tredici anni era stata rapita da uno sconosciuto che, dopo averla drogata e violentata, l'aveva rilasciata il giorno seguente in stato di shock. 
Lucinda è una ragazzina immatura per la sua età che non dimostra assolutamente i suoi tredici anni, una ragazzina di ottima famiglia che non è neppure immaginabile possa essere scappata di casa volontariamente.
Si teme quindi il peggio ovvero che il maniaco abbia colpito di nuovo.

“Da quando sei scomparsa” è un thriller emozionante e ricco di colpi di scena; un libro dal ritmo serrato, incalzante e avvincente.

Nulla è come sembra, tutti hanno qualche scheletro nell’armadio, ma non tutti questi scheletri hanno però attinenza con la soluzione del caso o almeno non ce l’hanno solo apparentemente.
E’ proprio questo ciò che rende questo libro emozionante e coinvolgente, il fatto che il lettore venga continuamente spiazzato, ogni volta che crede di essere vicino alla soluzione del caso, ecco che ogni sua impressione viene ribaltata da qualche nuovo elemento.

Non esistono famiglie ideali e la facciata che noi vediamo spesso e volentieri nasconde qualcosa che noi non sospetteremmo mai: un tradimento, un disturbo della personalità…

Perfetta è la descrizione dei personaggi; ognuno di loro trova una collocazione assolutamente calzante all’interno della trama e sono tutti così convincenti, chi col suo cinismo chi con la sua semplicità chi con le proprie debolezze, da rendere la storia credibile e reale.
                                                                                                
Lisa Kallisto, nonostante tutti gli sforzi per far quadrare ogni cosa, è continuamente afflitta dai sensi di colpa e di inferiorità ed è quindi inevitabile provare simpatia ed affetto per lei nel momento in cui viene accusata da tutti e colpevolizzata per il rapimento di Lucinda.
Così come è inevitabile provare un istinto omicida nei confronti di una donna fredda, acida e superba come Alexa, la sorella di Kate.

Il romanzo pone però anche due importanti interrogativi: fino a dove sia lecito spingersi pur di tenere unita la famiglia e a quali eccessi vengano spinte le donne di oggi per sostenere contemporaneamente il peso della famiglia e della carriera.

E’ soprattutto il secondo interrogativo che ha ispirato all’autrice la trama del romanzo. 
Paula Daly è rimasta particolarmente impressionata da un fatto di cronaca in cui una madre aveva dimenticato la figlia in auto e la bimba non era sopravvissuta.
Questo purtroppo non è un caso isolato, queste vicende si ripetono ormai troppo spesso.
La domanda è: ci si può davvero dimenticare di un figlio?
Non ho figli e sinceramente non so, nel caso fossi madre, se la mia opinione sull’argomento sarebbe diversa.
Mi chiedo però, se davvero è possibile arrivare a livelli di stress quotidiano così devastanti da rendere possibile fatti di cronaca di questo tipo, non sarebbe forse il caso di fermarsi un attimo e chiedersi se davvero una carriera  può valere il prezzo di una vita?
Non dimentichiamo, infatti, che casi di questo tipo si sono verificati anche a causa di padri, non solo di madri, che hanno dimenticato il figlio in auto.
Non dico che sia corretto che una donna debba rinunciare per forza alla propria carriera, credo però che sia giusto che una persona debba interrogarsi su quali siano le proprie priorità nella vita.
Non è questione di maschilismo o femminismo, credo sia solo una questione di buon senso.
Non credo assolutamente sia una scelta facile e tantomeno credo ci sia una regola che posa valere per tutti, non è mai giusto generalizzare, ognuno dovrebbe agire nel modo più corretto secondo la propria coscienza.
Permettetemi però di analizzare nello specifico il caso di Lisa Kallisto; con tutta la simpatia che il suo personaggio ha suscitato in me, come già precedentemete detto, sapendo di non avere tanti mezzi finanziari sufficienti e di dover lavorare tutto il giorno per far quadrare il bilancio familiare, non sarebbe stato più logico avere un solo figlio invece di tre?

Mi piacerebbe parlarvi a lungo di questo romanzo e commentare ogni particolare, ma non posso farlo per non rovinarvi il piacere della lettura; questo libro merita davvero di essere gustato pagina per pagina e vi assicuro che, una volta iniziato, lo divorerete.

Un unico consiglio: non commettete il mio stesso errore, ho iniziato a leggerlo durante una pausa pranzo ed è stato un tormento doverlo abbandonare per riprendere il lavoro!
Per cui mi raccomando, per la vostra pace interiore, cercate di iniziate la lettura solo quando siete davvero sicuri di avere qualche ora libera davanti a voi da dedicargli…





giovedì 28 agosto 2014

“Moll Flanders” di Daniel Defoe (1660 – 1731)

MOLL FLANDERS
di Daniel Defoe
NEWTON & COMPTON
Insieme a “Robinson Crusoe”, “Moll Flander” o meglio come recita il titolo originale “Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders” è probabilmente l’opera più conosciuta di Daniel Defoe. 

Il sottotitolo del romanzo è una più che esaustiva anticipazione di quanto ci si debba attendere dalla lettura:

che nacque nella prigione di Newgate e, durante una vita incessantemente variata di settant’anni, oltre l’infanzia, fu dodici anni prostituta, cinque volte sposata (una delle quali con il fratello), dodici anni ladra, otto anni deportata in Virginia, e che alla fine diventò ricca, visse onesta e morì pentita.
Scritte secondo le sue memorie

Il romanzo inizia proprio con la protagonista che informa il lettore del fatto che sarà lei stessa in prima persona a raccontare la sua storia e precisa che Moll Flanders non è il suo vero nome, ma semplicemente un nome di fantasia da lei preso per sfuggire alla legge.
Avverte che la sua storia parla di una vita vissuta all’insegna del vizio, in totale dispregio delle leggi di Dio e degli uomini.

La madre di Moll, incarcerata per furto a Newgate, appellandosi “al ventre” (permesso concesso quando una donna era incinta) era riuscita a posticipare la propria condanna, ma una volta nata la bambina era stata deportata in Virginia.
Moll Flanders viene quindi allevata in una specie di orfanotrofio, ma al contrario degli altri bambini mandati a servizio all’età di sette/otto anni, a lei è concesso di rimanere in istituto perché considerata come una figlia adottiva dalla donna che lo gestisce.
Quando questa muore, Moll ha solo dodici anni e viene ospitata da una famiglia borghese in qualità di compagna delle due figlie femmine; una volta cresciuta Moll diventa prima l’amante del fratello maggiore e in seguito  la moglie del minore.
Quando però il marito muore prematuramente, lasciati i figli ai suoceri, Moll diventa definitivamente padrona del proprio destino.
Prima sposa un uomo che fa bancarotta e che la abbandona chiedendole di dimenticarlo, poi si sposa con un altro uomo, un proprietario di piantagioni in Virginia piuttosto facoltoso, che la porta nel nuovo continente.
Qui dopo anni di matrimonio e dopo aver dato alla luce due figli, in attesa di un terzo, scopre che la suocera altri non è che la sua stessa madre un tempo deportata proprio in Virginia e che pertanto suo marito le è anche fratello.
Abbandonati marito e figli, ritorna in Inghilterra dove sposa un tipo del Lancashire che però si rivela ben presto essere un cacciatore di dote e, scoperto che lei non ha denaro, la abbandona immediatamente al suo destino.
Moll è nuovamente incinta, ma poiché le viene rinnovata la proposta di matrimonio da parte di un rispettabilissimo uomo d’affari al quale lei aveva lasciato in gestione il proprio denaro, decide di dare via il bambino e dopo aver pagato 5 sterline per il suo mantenimento, raggiunge quello che sarà il suo ennesimo marito.
Dopo qualche anno Moll rimane vedova ed economicamente quasi sul lastrico, decide quindi di dare in affido anche i figli nati da quest’ultimo matrimonio.
Ormai avanti negli anni e senza più possibilità di accalappiare un marito che la mantenga, ripiega su una nuova professione: il furto.
Trascorrono diversi anni in cui riesce a destreggiarsi abilmente imbrogliando e rubando, spesso rischiando la catturata, ma riuscendo sempre a salvarsi in extremis fino al giorno in cui inevitabilmente viene arrestata per il furto di alcune stoffe nella casa di un grossista.
Viene imprigionata a Newgate e qui, grazie all’intervento della sua amica e di un prete che la crede davvero pentita della sua condotta, riesce a far sì che la condanna alla pena di morte le venga commutata con la deportazione.
In carcere ritrova l’unico marito di cui sia stata realmente innamorata, l’uomo del Lancashire; anch’egli è destinato alla deportazione grazie all’aiuto di alcuni amici e in mancanza di alcuni testimoni le cui dichiarazioni lo condurrebbero senza dubbio al patibolo.
Grazie al denaro che avevano messo da parte riescono non solo a fare un viaggio confortevole fino in Virginia, ma anche ad evitare di scontare la pena una volta giunti a destinazione.
Nel nuovo mondo diventano proprietari terrieri e, grazie ai proventi delle loro piantagioni, vivendo onestamente raggiungono finalmente l’agiatezza economica.

Come definire questo romanzo? Un romanzo picaresco, ma anche un romanzo d’avventura con un intento morale nonostante al vizio ed alla corruzione siano dedicate molte più pagine di quante non ne siano dedicate al pentimento.

Moll Flanders è davvero pentita della vita dissoluta che ha condotto?
E’ vero che la protagonista dopo aver parlato con il sacerdote e aver convinto quest’ultimo del proprio pentimento, condurrà un’esistenza più rigorosa e moralmente irreprensibile, ma vedere in questo un elemento di sincero pentimento come molti critici sostengono, mi sembra un po’ eccessivo.

E’ normale che in presenza di un reale rischio di condanna alla pena di morte le sue certezze vengano meno, ma è pur vero che nel momento in cui vede che la soluzione del suo caso e la salvezza sono ormai vicine, poco le importa della salvezza della propria anima.
La sua vita diventa onesta solo nel momento in cui è economicamente tranquilla e ormai “anziana”, mai nel corso degli anni fin dall’adolescenza aveva però preso in considerazione di vivere di quel poco che poteva guadagnare rettamente. 

Moll descrivendo lo stato di depressione del marito prima della deportazione, afferma:

É proprio vero che gli animi grandi, quando sono sopraffatti dal dolore, son quelli che cadono nell’avvilimento più profondo e son pronti ad arrendersi.

In considerazione della condotta tenuta dall’uomo nel corso della propria vita, le parole di Moll Flanders non sembrano assolutamente le parole di una donna che condanni il vizio, il furto o qualunque altra cattiva azione.

La mia vita per quarant’anni era stata una spaventosa, complessa rete di crimini: prostituzione, adulterio, incesto, menzogna, furto, in una parola tutto avevo provato fuorché l’assassinio e il tradimento, dall’età di diciotto anni, o press’a poco, fino ai sessanta anni.

Sembra ci sia in questa affermazione più compiacimento che pentimento, ma ammetto di non essere un’ammiratrice di personaggi letterari che vivono nell’illegalità riuscendo spesso a farla franca per anni.
Chi segue il mio blog ricorderà infatti la mia avversione per un personaggio come Barry Lyndon, nato dalla penna di William M. Thackeray.
Devo però riconoscere che Moll Flanders non è così abietta, c’è sempre infatti una possibilità che lei sia sinceramente pentita, Barry Lyndon al contrario è un peccatore convinto senza possibilità o desiderio di redenzione; certamente più coerente, ma senza dubbio più indisponente per il lettore.

Consideriamo ora un altro aspetto della personalità di Moll Flanderse e parliamo di che tipo di madre sia la protagonista del romanzo di Defoe.
Quanti figli ha lasciato per strada senza alcun rimorso? Tranne rari casi l’impressione è che la donna non dimostri nessun sentimento nei confronti della propria prole.
Solo verso la fine della storia quando incontra il figlio concepito con il fratello sembra che si risvegli il suo istinto materno, ma è ragionevole a questo punto chiedersi quanto questo attaccamento non sia dovuto piuttosto al fatto che voglia tramite lui entrare in possesso della parte di eredità lasciatale dalla madre piuttosto che mossa da vero affetto nei confronti di un figlio abbandonato in tenera età.

Si dice che Defoe, per stabilire il compenso che avrebbe ricavato dalle sue opere, concordasse con l’editore il numero delle pagine e poi, una volta steso il romanzo, lo facesse pubblicare senza prima rileggerlo; tale sistema ovviamente comportava la presenza di imprecisioni e lacune nel testo.
Questo potrebbe spiegare perché nelle ultime pagine si nomini solo un figlio avuto dal fratello, quando in realtà i figli erano tre di cui uno morto alla nascita.
Ma tutto ciò non spiega comunque perché Moll Flanders, così affezionata al figlio ritrovato in Virginia, non parli mai e anzi sembri aver proprio dimenticato tutti gli altri numerosi figli.

Il mondo per Moll Flander sembra ruotare esclusivamente intorno al denaro. 
La ricchezza è il vero fulcro di tutto il racconto; ogni cosa gira intorno al capitale, al risparmio, ai soldi, agli interessi.
Tutto ha un prezzo, tutto è mercificato persino la vita delle persone; il matrimonio è solo un contratto basato sull’interesse e gli stessi figli sono considerati semplicemente come una fonte di reddito per chi li prende in custodia e una spesa per chi se ne vuole liberare.

La dote non è mai storpia né mostruosa, il denaro era gradito, comunque fosse la moglie

E così l’avarizia mi costrinse là dove la povertà mi aveva condotta

Il romanzo è stato pubblicato nel 1722 pertanto non si può pretendere che la lettura sia sempre scorrevole, ma nell’insieme è comunque un testo piacevole.

Nonostante apparentemente il racconto talvolta possa risultare forse un po’ monotono, quasi fosse un elenco di matrimoni, nascite e furti, in realtà il romanzo di Defoe offre al lettore molti spunti di riflessione e gli fornisce interessanti informazioni sull’epoca.

Attraverso le pagine di “Moll Flanders” riceviamo dettagliate informazioni sulle leggi del Settecento e sull’applicazione delle pene, sulla vita che si conduceva all’interno del carcere di Newgate, sulla deportazione dei condannati nelle colonie e sull’immagine di libertà, opportunità e tolleranza che i contemporanei di Defoe avevano dell’America.

Tutto questo fa di “Moll Flanders” un classico della letteratura inglese che non può mancare nelle vostre librerie.