sabato 9 febbraio 2013

“Oliver Twist” di Charles Dickens


Pubblicato a puntate sulla rivista Bentely’s Miscellany dal febbraio 1837 all’aprile 1839, Oliver Twist, secondo romanzo dell’autore che aveva già ottenuto un grande successo con il suo primo lavoro “Il circolo Pickwick”, fu scritto da un Dickens appena venticinquenne.
A differenza del suo primo libro, Oliver Twist è in realtà il più deprimente e per certi aspetti il più irritante di tutti i romanzi dickensiani.  Dopo aver fatto ridere il suo pubblico, con un primo romanzo picaresco e divertente, Dickens offre al pubblico una storia cruda e melodrammatica, dimostrando al tempo stesso, di saper anche maneggiare elementi spettrali e sovrannaturali. Incontriamo, infatti, in Oliver Twist l’elemento “macabro”, elemento attinto dal romanzo gotico del ‘700. A differenza però di quest’ultimo, le cui storie erano spesso ambientate in paesi mediterranei quali la Spagna, la Corsica e l’Italia, Dickens ambienta questo suo libro in una città e per la precisione a Londra. Questa viene descritta a tinte fosche, come un luogo sporco e decadente, con strade piene di fango e infestate dai topi. Londra è in realtà una città comandata dalla “cittadella” dei malviventi, dove a farla da padrone sono l’avidità e l’ingordigia.
Dickens descrive il mondo dei criminali come un mondo dotato di una forza incredibile, per certi aspetti la loro forza è addirittura pari a quella delle istituzioni e spesso questi individui non sono descritti come degli emarginati, ma piuttosto come persone che conducono una vita quasi attraente.
Oliver Twist è un romanzo di formazione e crescita individuale; l’incontro/scontro di Oliver con i criminali con cui viene a contatto e che lo perseguitano è lo scontro tra il bene ed il male, uno scontro che assume anche spesso un valore didattico perché Dickens sottolinea che chiunque, grazie alla propria forza di volontà, può passare dalla parte del bene.
Il romanzo si apre proprio con la nascita di Oliver: una vagabonda muore dando alla luce un bambino che verrà affidato ad un orfanotrofio dove resterà fino all’età di nove anni quando verrà mandato a lavorare per un’impresa di pompe funebri. Oliver, maltrattato sia dalla moglie che dall’aiutante del suo padrone, fuggirà a Londra. Qui sarà costretto ad unirsi ad una banda di ladruncoli di strada e sarà obbligato a partecipare a furti e rapine dal loro capo, Fagin, stereotipo dell’ebreo taccagno. Solo dopo innumerevoli e tragiche peripezie, attraverso un intricato intreccio di avvenimenti e colpi di scena, Oliver scoprirà di avere una famiglia e, venuto a conoscenza delle sue origini, riuscirà anche a riscattarsi definitivamente.
Attraverso le pagine del libro Dickens coglie l’occasione per denunciare alcuni problemi che affliggono la società dell’epoca vittoriana, come lo sfruttamento minorile e le condizioni di degrado in cui vivono le persone più povere nelle città. Non manca di polemizzare con alcune istituzioni dell’epoca: lo stesso ospizio di mendacità, gestito dalla chiesa, nel quale è Oliver è ospitato, viene descritto come un luogo gestito da persone avide e prive di scrupoli che non si preoccupano affatto del bene dei bambini a loro affidati i quali riescono a sopravvivere a stento poiché le persone preposte ad occuparsi di loro li fanno vivere nella sporcizia e nella miseria per intascarsi il denaro destinato al loro mantenimento. La polemica di Dickens investe anche le associazioni filantropiche, così di moda nel periodo in cui lo scrittore vive, ritenendole prive di utilità; secondo lo scrittore la carità elargita da un filantropo fornisce semplicemente un alibi a chi vuole cercare di scaricarsi la coscienza davanti a problemi che dovrebbero invece avere una risposta dalla politica.
Nonostante questo però Dickens resta pur sempre un esponente della sua classe sociale e così inevitabilmente Oliver troverà riscatto solo quando verrà a contatto con la borghesia, in quanto luogo di rinascita spirituale. Poiché soltanto il possesso di denaro e un lignaggio aristocratico-borghese rendono una persona perbene, sarà solo nella cerchia dei suoi amici benestanti che Oliver potrà attuare la sua predisposizione al bene. Alla fine, per quanto il mondo criminale possa essere attraente, il malvivente deve morire, rispettando quella che secondo la mentalità borghese dell’epoca è “la giusta condanna”. Così Fagin muore impiccato e così soccombe Nancy, che poiché ha dimostrato affetto nei confronti di Oliver, prendendone spesso le difese, e dimostrandosi pentita per gli errori commessi durante la sua vita scellerata, viene assassinata da Sikes in un accesso d’ira, riscattandosi così attraverso la morte.
Oliver Twist è stato oggetto di diverse trasposizioni cinematografiche: film, serie tv, miniserie; l’ultimo adattamento è quello del 2005, regia di Roman Polanski, di cui sono da sottolineare soprattutto la splendida fotografia e la magistrale interpretazione di Fagin da parte di Ben Kinsley.






mercoledì 23 gennaio 2013

George Orwell (1903 – 1950)

George Orwell (pseudonimo di Eric Arthur Blaire) nasce nel 1903 a Motihari nel Bengala dove il padre, di origine anglo-indiana, era funzionario statale.
Nel 1904 torna in Inghilterra con la madre e le due sorelle. Nel 1917, ottenuta una borsa di studio presso il collegio St. Cyprian di Eastbourne, viene ammesso ad Eaton dove resta quattro anni.
Nel 1922 si arruola, seguendo le orme paterne, nella Polizia Imperiale in Birmania; Orwell è duramente segnato da questa negativa esperienza di vita, disgustato dall’arroganza imperialista, non riesce ad accettare la funzione repressiva impostagli dal ruolo che è costretto a svolgere.
Nel 1928 lascia la Polizia Imperiale e si trasferisce a Parigi dove vive di espedienti e della carità popolare. L’anno successivo, nel 1929, torna a Londra dove continua a vivere nell’indigenza.
Nel 1936 si sposa e parte volontario per la Spagna arruolandosi nelle brigate antifranchiste. Trasferito a Barcellona si arruola tra i trotzkisti, ma quando questi vengono dichiarati fuori legge dal governo repubblicano a maggioranza comunista lascia in fretta la Spagna e fa ritorno in Inghilterra.
In patria collabora con riviste, giornali e cura una serie di trasmissioni per la BBC.
Muore di tubercolosi a Londra nel 1950.

Così a grandi linee può essere riassunta la vita di George Orwell, opinionista politico-culturale e romanziere, considerato uno dei saggisti più conosciuti del XX secolo. Le sue opere più famose sono “ La fattoria degli animali” (pubblicato nel 1945) e “1984” (uscito nel 1948).
Ultimamente ho avuto occasione di rileggere in lingua originale due suoi romanzi, certamente meno conosciuti, ma che a mio avviso sono molto interessanti perché fondamentali per capire il carattere, l’ideologia e il pensiero di Orwell: “Senza un soldo a Parigi e a Londra” (“Down and Out in Paris and London”) e “La strada di Wigan Pier” (“The Road to Wigan Pier”).
Franco Garnero, nel suo saggio “Giustizia e libertà” (prefazione a “Romanzi” di Orwell, Mondadori), pur definendo la scrittura di Orwell una scrittura politica, ritiene che lo scrittore non debba e non possa essere definito un politico nel senso stretto del termine, sia per la forte avversione che nutriva per le ideologie sia per la sua ossessione di voler raccontare sempre la verità oggettiva dei fatti. In tutti i suoi libri, infatti, Orwell si sforza, per quanto possibile, di non prescindere mai da questo principio di “oggettività” dichiarando sempre che quanto raccontato è il frutto di un’esperienza diretta o di una testimonianza altrui della quale indica sempre il grado di attendibilità.
E proprio a questi principi sono pienamente riconducibili i due libri da me sopra indicati.

“Senza un soldo a Parigi e a Londra” opera prima di George Orwell esce nel 1933. Il romanzo racconta le esperienze di vita vissute nelle due capitali europee immediatamente dopo essersi dimesso dalla Polizia Imperiale in Birmania nel 1928.
Attraverso le pagine di questo libro lo scrittore ci racconta lo squallore e la miseria dei bassifondi parigini, la fatica di trovare un luogo dove dormire e la fortuna di riuscire ad ottenere un lavoro per poter sopravvivere, anche se un lavoro umile come quello del lavapiatti, un lavoro massacrante che riduce un uomo ad uno schiavo, costretto a lavorare fino a 18 ore al giorno, senza più tempo per “vivere”. Orwell ci porta a conoscenza di un mondo sconosciuto fatto di elemosina, lenzuola usate, pidocchi, sporcizia e visite al banco dei pegni, un mondo dove la dignità dell’essere umano è continuamente calpestata. Quello che colpisce di più è che, anche all’interno di questa società del sottosuolo, imperversi una divisione classista: così il lavapiatti è l’ultimo gradino dei lavoratori di alberghi e ristoranti, i mendicanti e i barboni sono ben al di sotto di coloro che disegnano per la strada in cambio di qualche spicciolo dai passanti e così via…
Ci sono poi le differenze evidenziate tra l’essere un barbone a Parigi piuttosto che a Londra. In quest’ultima città come sottolinea Orwell le leggi contro l’accattonaggio sono molto più severe, non è quindi concesso dormire per la strada né chiedere l’elemosina. Da qui l’obbligo di trovare ulteriori espedienti per poter sopravvivere, un esempio su tutti il partecipare a riunioni religiose in cambio di “una tazza di te”.
Questo mondo, sconosciuto ai più, viene raccontato attraverso aneddoti, anche divertenti pur nella loro crudeltà e tragicità, con dovizia di particolari. Lo stile usato è una via di mezzo tra un racconto picaresco e una cronaca giornalistica, ferma la veridicità provata in prima persona delle vicende raccontate.
Una cosa è certa: dopo aver letto questo libro mangiare in un ristorante non sarà più la stessa cosa…

“La strada di Wigan Pier” libro pubblicato nel 1937, è un volume di forte impronta socialista dove sono affrontati i temi della disoccupazione e delle condizioni dei minatori inglesi.
Il libro nasce dall’indagine che Orwell dovette svolgere su commissione del Left Book Club, un’associazione filo socialista, nelle zone colpite dalla depressione economica.
Il tema dominante di questo libro, tema peraltro comune a molti suoi scritti, è la difesa del proletariato, dei deboli e della libertà individuale. Ritroviamo inoltre il tema del classismo: Orwell, avvalendosi di elementi e racconti autobiografici, sottolinea quanto sia difficile se non impossibile abbattere il muro delle “caste”. Secondo lo scrittore il sistema classista inglese non è del tutto spiegabile in termini monetari ma si tratta a tutti gli effetti un sistema di “casta” che lui paragona a “un moderno villino mal costruito e infestato da fantasmi medievali”.
Sempre citando il saggio di Franco Garnero “il socialismo di Orwell si riassume in definitiva nella formula del proclama di The Road to Wigan Pier, “giustizia” e “libertà”, che è poco definita sul piano politico ma esprime con forza esigenze ben circostanziate su quello morale. In fondo il suo conservatorismo non è che il desiderio di moralizzare la politica e l’economia”. In effetti, Orwell è per certi versi contraddittorio quando da un lato auspica il superamento della divisione in classi della società ma dall’altro ha paura che questo accada a discapito delle qualità più distintive della classe borghese alla quale appartiene.  

Un unico avvertimento prima di augurarvi una buona lettura: non dimenticate che questi testi sono stati scritti nella prima metà del secolo scorso.



sabato 5 gennaio 2013

“La futura regina” di Philippa Gregory


Da molto tempo desideravo leggere un libro di Philippa Gregory, ma ogni volta in libreria la mia attenzione veniva poi attratta da qualche altro romanzo. Ho ricevuto “La futura regina” come regalo di compleanno e così finalmente si è presentata l’occasione di leggere qualcosa di questa autrice.

Philippa Gregory è una scrittrice e giornalista radiotelevisiva, si è laureata in Letteratura settecentesca all’Università di Edimburgo e vive nell’Inghilterra del Nord. Ha scritto diversi romanzi, tra cui “L’altra donna del re” da cui è stato tratto un film con Scarlett Johansson, Natalie Portman e Eric Bana incentrato sul triangolo amoroso tra Enrico VIII e le sorelle Bolena, Anna e Maria.





“La futura regina” è il quarto libro della serie dedicata dalla Gregory alla Guerra delle due Rose:

1. La Regina della Rosa Bianca
2. La Regina della Rosa Rossa
3. La Signora dei Fiumi
4. La Futura Regina

In questo quarto volume siamo nel 1456. Il conte di Warwick, il creatore di re, è uno degli uomini più influenti della corte di Edoardo IV. Non ha discendenti maschi, ma solo due figlie femmine: Isabella la maggiore e Anna la secondogenita. E’ proprio quest’ultima, Anna Neville, la futura regina d’Inghilterra e moglie di Riccardo III, che racconta in prima persona gli eventi che si svolgono negli ultimi anni della Guerra delle due Rose, dall’ascesa al trono di Edoardo IV fino al regno di Riccardo III.

Il libro è decisamente ben scritto, scorre veloce, la lettura è piacevole. Ma nonostante le ultime pagine siano dedicate ad un’ampia bibliografia, il libro è davvero una storia inventata a tutti gli effetti. La stessa autrice nella sua nota al termine del volume evidenzia che è una sua “idea” quella di vedere in Anna Neville una vera e propria protagonista degli anni dell’ultimo periodo che vide la lotta per il trono tra il casato dei Lancaster e quello degli York.  Molte sono le imprecisioni storiche e, ad essere sincera, anche le descrizioni di Elisabetta Woodville e della sua famiglia a volte sono davvero “imbarazzanti”. E’ vero che era un’epoca in cui anche solo pensare di consultare un “mago” che facesse l’oroscopo a Sua Maestà era considerato alto tradimento e come tale un delitto punito con la pena di morte, è vero che al tempo in cui sono ambientati i fatti la superstizione e la stregoneria facevano parte della vita di tutti i giorni, ma in questo libro è tutto davvero troppo forzato.
E’ comunque affascinante leggere la descrizione della corte, dei tradimenti e degli intrighi che vengono tramati così come sono davvero coinvolgenti le pagine che descrivono l’inizio della storia, la fuga d’amore ed il matrimonio segreto tra Anna Neville e Riccardo, duca di Gloucester, futuro Riccardo III.
Insomma nell’insieme un libro piacevole, leggibilissimo per quello che è: un romanzo molto più “rosa” che “storico” ambientato in Inghilterra in un periodo, confuso e pericoloso, in cui si combatteva una sanguinosa guerra dinastica.

lunedì 24 dicembre 2012

Buon Natale con “The Christmas Books” di Charles Dickens


Natale è arrivato! Tanti auguri a tutti voi ed alle vostre famiglie! Che possa essere un giorno pieno di gioia e che porti armonia e pace nelle vostre vite e in quelle dei vostri cari…

Ho pensato che il modo migliore per farvi gli auguri fosse quello di ricordare insieme i famosi “Libri del Natale” (The Christmas Books) scritti da Charles Dickens tra il 1843 ed il 1848:

“Un canto di Natale” (The Christmas Carol)

“Le campane” (The chimes)

“Il patto con il fantasma” (The haunted man)

“La battaglia della vita” (The battle for life)

“Il grillo del focolare” (The cricket on the hearth)

Nelle pagine di questi brevi racconti, così suggestivi e talvolta surreali, Dickens ci racconta il Natale e la sua magia. In queste pagine scritte per un pubblico adulto così come per i più piccoli, lo scrittore ci invita a cercare la semplicità delle cose, suscitando in noi sentimenti di tolleranza verso il prossimo e facendoci volgere lo sguardo verso i più bisognosi, verso coloro che sono stati meno fortunati di noi. Dickens sa ricreare perfettamente l’atmosfera natalizia, quell’atmosfera di pace e serenità che si può ritrovare solo davanti al focolare domestico e nelle piccole ed umili azioni quotidiane.

Augurandovi ancora un sereno e lieto Natale, vi saluto con l’incipit di “Un canto di Natale”, forse il più famoso dei cinque racconti grazie anche alle sue numerose trasposizioni cinematografiche.

Marley era morto. Tanto per cominciare. Su questo non c’è alcun dubbio. Il certificato delle esequie era stato firmato dal pastore, dal segretario della parrocchia, dal becchino e da un parente. L’aveva firmato Scrooge. E in Borsa il nome Scrooge godeva gran credito, qualsiasi cosa decidesse di fare.
Il vecchi Marley era morto come un chiodo piantato in una porta.
Attenzione! Non intendo dire di sapere, per conoscenza personale, che cosa mai ci sia di particolarmente morto in un chiodo piantato in una porta. Per quanto mi riguarda, sarei stato propenso a credere che sia un chiodo piantato in una bara l’articolo di ferramenta più morto sul mercato. Ma la saggezza dei nostri antenati sta nella similitudine e le mie mani profane non debbono turbarla, o sarebbe la rovina del paese. Mi permetterete, dunque, di ripetere con enfasi che Merley era morto come un chiodo piantato in una porta.

domenica 16 dicembre 2012

“Zastrozzi” di Percy Bysshe Shelley


Shelley scrisse “Zastrozzi” all’età di 17 anni mentre frequentava l’ultimo anno ad Eton College. Due furono i romanzi scritti dal poeta durante questo periodo “Zastrozzi” e “St. Irvyne or the Rosicrucian” entrambi pubblicati nel 1810. 
Come più volte sottolineato dalla critica, entrambe le opere sono di scarso valore letterario, ma hanno un loro valore in quanto anticipano tematiche che saranno poi ampiamente sviluppate nella poetica di Shelley.
“Zastrozzi” è a tutti gli effetti un romanzo gotico che molto deve alla tradizione di questo genere e ai suoi autori, primi tra tutti si possono notare i molti i richiami ad Anne Radcliffe (The Mysteries of Udolpho, 1794) e a Matthew Gregory Lewis (The Monk, 1797).
La trama del romanzo è in realtà molto semplice:
Zastrozzi aiutato dai suoi due compari, Bernardo ed Ugo, rapisce Verezzi che alloggia in una locanda e lo nasconde in una caverna dove lo tiene incatenato al buio nutrendolo solo con pane ed acqua. A seguito di un forte temporale, il tetto della caverna crolla e, a causa delle pessime condizioni di salute del prigioniero, Zastrozzi, che lo vuole comunque mantenere in vita, decide di lasciarlo alle cure di una domestica di fiducia in una dimora nascosta ed isolata. Una volta ritrovate le forze, Verezzi riesce a fuggire ed arriva nella località di Passau. Qui viene raggiunto da Matilda, contessa di Laurentini che lo convince a trasferirsi a casa sua. Matilda, innamorata di Verezzi è in realtà d’accordo con Zastrozzi. Mentre quest’ultimo vuole vendicarsi di Verezzi a causa dei torti subiti dalla madre (sedotta e abbandonata proprio dal padre di questo), Matilda vuole annientare e uccidere la sua rivale in amore, la bella Giulia, promessa sposa dello stesso Verezzi.
L’ambientazione di "Zastrozzi" è tipica del romanzo gotico: ombre cupe e minacciose, case e castelli solitari, prigioni e segrete, boschi bui e minacciosi, su uno sfondo caratterizzato dall'infuriare di tempeste e dallo scatenarsi violento di tutti gli elementi naturali.
Nel romanzo shelleyano però i mostri leggendari ed i fantasmi che animano la storia sono di tipo diverso da quelli presenti nel romanzo gotico vero e proprio. In "Zastrozzi" l’elemento magico scompare per lasciare posto all'indagine dei processi mentali e della psicologia dei protagonisti; il racconto è in realtà il racconto delle passioni (amore, lussuria e sete di vendetta) che muovono i quattro personaggi principali di questo breve dramma: Matilda e Giulia, Zastrozzi e Verezzi.
Matilda e Zastrozzi (i malvagi) sono uniti dalle loro macchinazioni contro la coppia di innamorati formata da Giulia e Verezzi (gli eroi del bene).
Percy Bysshe Shelley  (1792 - 1822)
Mentre Matilda, la crudele seduttrice ossessionata e dominata dall'oggetto della sua lussuria nelle ultime pagine si pentirà della sua condotta e, riconciliatasi con la religione, proverà rimorso per i crimini commessi, Zastrozzi il suo coraggioso complice, al contrario, affronterà la morte dignitosamente, fermamente convinto di aver agito per il meglio, fiero del suo comportamento. 
Giulia è l’antitesi della contessa di Laurentini, così come quest’ultima rappresenta la sensualità, così Giulia rappresenta la bellezza angelica e la purezza; sarà proprio questo sentirsi oppresso e preso in trappola tra questi due impulsi opposti ed inconciliabili che porterà il povero Verezzi ad uccidersi pugnalandosi a morte.

“La mia regola è quella di apparire calmo, a dispetto degli eventi, a dispetto delle passioni più profonde. Di solito lo sono poiché non permetto che le ordinarie vicende o gli imprevisti mi tocchino: la mia anima si indurisce davanti alle prove più ardue. Ho uno spirito ardente, impetuoso come il tuo, ma la conoscenza del mondo mi ha indotto a celarlo, sebbene continui a bruciare dentro di me. Credimi, non ho alcuna intenzione di distoglierti dal tuo intento; io l’ho provato una volta, ma ora la vendetta ha ingoiato ogni altro sentimento e mi sento vivo soltanto per questo scopo. Ma anche se volessi dissuaderti dal proposito su cui ti sei fissata, non direi che è sbagliato tentare. Ogni cosa che procuri piacere è giusta e congeniale alla dignità dell’uomo, che è stato creato soltanto per essere felice; altrimenti a quale scopo avremmo le passioni? Perché quelle emozioni che si agitano nel petto e che fanno impazzire sono state impiantate in noi dalla natura? Quanto poi alla speranza confusa in una vita futura, perché mai dovremmo privarci della felicità, anche se ottenuta nel modo che i più sprovveduti chiamano immorale?”.
Così parlava Zastrozzi, in maniera sofisticata. La sua anima, resa insensibile dal crimine, non poteva che albergare idee confuse di felicità immortale.
  
Secondo l’opinione della critica, la vera importanza di questo breve romanzo va ravvisata proprio nel poter intravedere nella figura di Zastrozzi un abbozzo del futuro trasgressore prometeico, dell'eroe romantico delle opere più mature di Percy Bysshe Shelley.




Bigliografia:
Percy Bysshe Shelley, “Zastrozzi” con introduzione di Giovanna Silvana, Firenze 2002, Aletheia) 

sabato 1 dicembre 2012

“Colazione da Tiffany” di Truman Capote


“Colazione da Tiffany” (Breakfast at Tiffany’s) è un romanzo scritto da Truman Capote (1924-1984) pubblicato nel 1958. La storia di Holly Golightly è però nota al grande pubblico più per la celebre trasposizione cinematografica del 1961, interpretata da una bravissima e bellissima Audrey Hepburn, piuttosto che per il racconto letterario.
In realtà tra il romanzo e il film ci sono notevoli differenze, senza nulla togliere alla versione cinematografica che è da considerare comunque un capolavoro, si può comprendere perfettamente il risentimento e la delusione di Capote per il “tradimento” perpetrato ai danni della sua opera una volta venduti i diritti cinematografici alla Paramount Pictures.
Ad una lettura superficiale del romanzo la maggiore differenza che colpisce è ovviamente il diverso finale. Nel film assistiamo ad un classico happy ending hollywoodiano tra Holly e lo scrittore squattrinato che qui ha, non solo un nome (Paul Vorjak), ma anche un background (viene mantenuto dalla sua “arredatrice” una donna sposata e più anziana di lui) completamente estranei al testo di Capote. Il finale del libro invece rimane “aperto”: Holly partirà per il Brasile senza dare più notizie di sé.
Lo scrittore è effettivamente innamorato di Holly anche nel libro, ma è un amore diverso, sembra, in effetti, non esserci nessuna attrazione fisica nonostante lui si riconosca comunque geloso di lei. Il sentimento resta incerto ed ambiguo, solo accennato, nonostante ad un certo punto lui pronunci queste parole “Sei meravigliosa. Unica. Ti amo.”

Oppure, e la domanda è legittima, il mio sdegno derivava, sia pure in piccola parte, dal fatto che ero innamorato di Holly? In parte, sì. Perché ero davvero innamorato di lei. Come una volta ero stato innamorato dell’anziana cuoca negra di mia madre e di un postino che mi permetteva di seguirlo nei suoi giri e di una intera famiglia di nome McKendrick. Anche questo tipo di amore genera gelosia.
 
La storia della “Signorina Holiday Golightly, in transito”, una ragazza fragile ma caparbia, un po’ svampita anche se cinica, egoista e generosa al tempo stesso, capricciosa, fragile e sognatrice raccontata nelle pagine di Capote non sembra apparentemente così diversa da quella della Holly che appare sul grande schermo ad eccezione di qualche particolare fisico (per esempio il colore dei capelli) e dalla mancanza della classe e dell’eleganza proprie della Hepburn che inevitabilmente hanno dato un fascino diverso alla protagonista del film rispetto a quella del libro.

“Non amate mai una creatura selvatica, signor Bell.” Lo ammonì Holly. “E’ stato lo sbaglio di Doc. Si portava sempre a casa qualche bestiola selvatica. Un falco con un’ala spezzata . E una volta un gatto selvatico adulto con una zampa rotta. Ma non si può dare il proprio cuore ad una creatura selvatica; più le si vuol bene più forte diventa. Finchè diventa abbastanza forte da scappare nei boschi. O da volare su un albero. Poi su un albero più alto. Poi in cielo. E sarà questa la vostra fine, signor Bell, se vi concederete il lusso di amare una creatura selvatica. Finirete per guardare il cielo.”

Non ci sono solo le già citate differenze tra la versione dello scrittore, l'io narrante del romanzo ed il co-protagonista nel film, ma anche altri personaggi nella versione cinematografica hanno subito “rimaneggiamenti”. Tra questi troviamo Mag Wildwood, la modella balbuziente che nel libro condivide per qualche tempo l’appartamento con Holly, in realtà nel film diventa solo una semplice comparsa. Altri personaggi poi sono stati proprio eliminati: non c’è nessuna traccia nel film del barista Joe che nel romanzo è proprio colui che fornisce il pretesto all’io narrante di raccontare attraverso un lungo flashback la storia di Holly Golightly.
In “Colazione da Tiffany” c’è molto di autobiografico (i riferimenti all’omosessualità, il nome della madre, la professione dello scrittore). Truman Capote ebbe un’infanzia molto difficile, figlio di genitori separati, crebbe presso dei parenti. La madre lo andava a trovare occasionalmente e spesso lo portava con sé durante i suoi incontri con l’amante di turno, lasciandolo chiuso a chiave al buio nelle varie stanze d’albergo. Il padre, sempre alla ricerca di ricchezza e di un facile successo, sparì dalla vita di Capote salvo ricomparire quando lo scrittore raggiunse il successo. Fece scalpore un’intervista che Truman Capote rilasciò al New York Times dicendo di se stesso “Sono un alcolizzato. Sono un tossicomane. Sono omossessuale. Sono un genio”. Fu proprio per questi suoi atteggiamenti che spesso venne paragonato ad un Oscar Wilde contemporaneo. Negli ultimi anni della sua vita collezionò una serie di fallimentari relazioni sentimentali con uomini interessati esclusivamente al suo denaro; intossicato dai sonniferi e dall’abuso di superalcolici, morì poco prima di compiere 60 anni.
Nel libro ci sono spesso allusioni ad una possibile bisessualità di Holly che nel film vengono completamente eliminate così come nel film viene omessa la gravidanza della protagonista. La stessa Mag Wildwood la modella balbuziente, che nel film ha così poco spazio, nel libro alla sua prima apparizione dà comunque l’impressione di una possibile bisessualità.

Avevo una compagna di stanza a Hollywood, che recitava nei western, la chiamavano la Guardia a Cavallo; ma devo riconoscerle che in casa era meglio di un uomo. Naturalmente, gli altri non potevano fare a meno di pensare che fossi un po’ lesbica anch’io. E lo sono naturalmente. Tutte lo siamo, un po’. E con questo?

E’ più vicino al mio ideale Nehru; o Wendell Wilkie. E sarei sempre pronta a prendermi la Garbo. Perché no? Una persona dovrebbe poter sposare uomini o donne o… stammi a sentire, se tu venissi a dirmi che vuoi metterti con un cavallo da corsa rispetterei il tuo sentimento. No, parlo sul serio. L’amore dovrebbe essere libero. Ne sono profondamente convinta (…)

La versione cinematografica di “Colazione da Tiffany” riduce molto la denuncia di Capote di una società ipocrita e perbenista dove diplomatici e personaggi dell’alta società non esitano a scaricare “la prostituta” per salvare il loro buon nome e la loro posizione.

Mio marito ed io quereleremo, decisamente, chi tenterà di collegare i nostri nomi a quella re-re-repellente e de-de-degenerata ragazza. (Signora Trawler)

Ho la mia famiglia da proteggere e il mio nome, e sono un vigliacco quando si tratta di queste istituzioni. (Josè)

 Gli ho detto di interessarsi alla faccenda, e di mandarmi il conto. Ma di non fare mai, assolutamente, il mio nome, capite. (O.J. Berman)

La cover girl diventa così l’unico personaggio “onesto”.

Voglio dire, non si può sbattersi un uomo e incassare i suoi assegni e non cercare almeno di credere che lo si ama. Non l’ho mai fatto, io.
 
Non un’onestà di tipo legale (…) ma un’onestà nei confronti di se stessi. Sii quello che vuoi ma non un vigliacco, un fanfarone, un ladro di emozioni, una sgualdrina; preferirei avere il cancro piuttosto che un cuore disonesto.

Segnalo, per chi avesse l’occasione e fosse interessato, che la compagnia teatrale “Gli Ipocriti” con Francesca Inaudi e Lorenzo Lavia, sta portando in scena per la regia di Piero Maccarinelli, l’adattamento teatrale di Samuel Adamson di “Colazione da Tiffany”. Questa versione dovrebbe avvicinarsi di più al testo di Capote, ispirandosi anche alla sua biografia, piuttosto che al modello cinematografico.

domenica 25 novembre 2012

“Lettera sulla felicità” di Epicuro


Epicuro nacque nel 341 a.C. a Samo e morì ad Atene nel 271 a.C. dove fondò una scuola, il Giardino, aperta anche alle donne e agli schiavi. L’epicureismo fu una dottrina molto diffusa dal IV secolo a.C. fino al II secolo d.C. Subì un rapido declino in quanto avversato dai Padri della Chiesa, ma fu rivalutato nuovamente in seguito in epoca Umanistica, durante il Rinascimento ed il periodo dell’Illuminismo.
Fu autore di numerosi scritti che sono andati in parte perduti e di cui restano solo alcuni frammenti. Sono giunte però tre epistole riportate da Diogene Laerzio: la “Lettera ad Erodoto”, la “Lettera a Meneceo” e la “Lettera a Pitocle”.

Proprio la “Lettera a Meneceo” conosciuta anche come “Lettera sulla felicità” viene riproposta da Einaudi con testo greco a fronte nella traduzione di Angelo Pellegrino (70 pagine – prezzo € 8,00). Nel volume ritroviamo inoltre le “Massime capitali”, il “Gnomologium Vaticanum Epicureum” e la “Vita di Epicuro” scritta da Diogene Laerzio.

Perché leggere questo libro? Direi soprattutto per riscoprire e comprendere meglio il pensiero di un filosofo che nel corso dei secoli è stato frainteso, odiato ed equivocato.
E perché no? Forse la dottrina epicurea potrebbe aiutarci a vivere più tranquillamente la vita di tutti i giorni…a conoscerci meglio, ad essere più felici, ad imparare ad accettare i nostri limiti, a non desiderare l’impossibile, ad allontanarci da tutto ciò che ci crea ansia, a prendere le distanze da tutto ciò che è superfluo e che non abbia come fine ultimo la nostra serenità.

Perché come recitano le prime righe dell’introduzione scritta dallo stesso Angelo Pellegrino:

“Epicuro e la giustezza del piacere”
Un pensiero per la vita, solo per la vita.
Un filosofo veramente amico che da ventitre secoli non cessa di dirci che non può esistere autentica felicità senza il piacere.
Un pensiero che, contrariamente a tanti altri, non ha mai fatto e non può fare male a nessuno, che inviata ad amare se stessi e soprattutto a rispettarsi, azione primaria per non danneggiare i propri simili.

Davvero interessante poi la seconda parte dell’introduzione “Fortuna d’una traduzione” in cui Angelo Pellegrino ci racconta la nascita del suo progetto, la storia e la fortuna editoriale della prima edizione della sua traduzione, nelle edizioni dei volumetti da 1000 lire, e del suo amore per Epicuro e la dottrina epicurea.

da “Lettera sulla felicità”

Meneceo,
Mai si è troppo giovani, o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell’animo nostro (…) Cerchiamo di conoscere allora le cose che fanno la felicità, perché quando essa c’è tutto abbiamo.

da “Massime capitali”

VIII - Di per sé nessun piacere è male, ma bisogna stare attenti a certi modi di procurarlo, che arrecano più tormenti che piacere.

XVII – Il giusto è un tranquillo, l’ingiusto un agitatore perenne.

XXVII – Il bene più grande che la conoscenza ci offre per la felicità di tutta la vita è acquistare l’amicizia.

XXXI – Diritto di natura significa patto fondato sull’utile reciproco, per non fare male agli altri e non riceverne.

Come definirei questo libro? Un libro da tenere a portata di mano, magari sul comodino e da rileggere ogni tanto…