Visualizzazione post con etichetta Poesia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Poesia. Mostra tutti i post

sabato 20 gennaio 2024

“I Diari di Dante” di Riccardo Starnotti

Secondo una leggenda medievale la Divina Commedia sarebbe stata spiegata nella sua totalità solo dopo settecento anni dalla sua stesura o dalla morte del suo autore.

30 Marzo 2009. Riccardo compie 25 anni, non è nel mezzo del cammin della sua vita, ma ha pur sempre raggiunto un traguardo, il quarto di secolo.  Il tempo della profezia sta per scadere e lui da qualche notte fa uno strano sogno, sempre lo stesso. E se fosse proprio lui il prescelto per risolvere l’enigma? Una serie di coincidenze lo conducono alla scoperta di una pergamena antica. La pergamena riporta una bellissima poesia in terzine dantesche che fa pensare che il suo autore potrebbe essere addirittura il Sommo in persona.

Inizia così un affascinante viaggio alla scoperta del significato del testo poetico, un percorso che parte da Firenze e attraversa diverse località del Casentino, un viaggio fatto di incontri speciali e di testi antichi, di luoghi singolari, senza mai perdere di vista la letteratura dantesca.   

Più volte Riccardo si sentirà dinnanzi alle terzine che celano il mistero con le loro “parole di colore oscuro” come Dante di fronte alla porta dell’Inferno, ma non si scoraggerà mai, sostenuto sempre dalla presenza della dolce compagna Irene.

“I Diari di Dante. La leggenda si avvera” si preannuncia essere il primo volume di una trilogia. Un testo molto diverso da quello che mi sarei aspettata, ma conoscendo l’autore non stupisce che la sorpresa potesse nascondersi dietro l’angolo. Invero, questo libro ha un taglio molto particolare che non permette in alcun modo di inserirlo in uno specifico genere letterario.

Sulle parole di Dante Riccardo Starnotti ci conduce alla scoperta delle località meno conosciute del Casentino, ci fa conoscere i misteri del luogo da dove il viaggio ebbe inizio, San Miniato al Monte a Firenze, ci porta nella burella del bellissimo castello di Poppi.

Tra queste pagine, però, non troviamo solo luoghi, poesia e alchimia, ma anche tanti personaggi affascinanti e una gustosa guida enogastronomica perché, come non manca mai di ricordare Riccardo, anche la fase “mastica” ha la sua importanza quanto quella mistica.

Il libro di Riccardo Starnotti è anche uno zibaldone di pensieri che inducono il lettore ad interrogarsi su tante tematiche, che non necessariamente debbono essere ricondotte alla poetica dantesca, come il vero significato della filosofia, la necessità di ritrovare un ritmo lento, il piacere della scoperta, il piacere di imparare cose nuove solo per il gusto di farlo.

A questo punto credo sia doveroso spendere qualche parola sull’autore di questo libro. Riccardo Starnotti è davvero un personaggio. Guida turistica e ambientale, è solito condurre visite dantesche nei luoghi dove il poeta nacque e visse durante l’esilio e in quei posti menzionati nella Divina Commedia. Riccardo si è tanto calato nella parte che ormai anche i suoi amici stentano a riconoscerlo quando si presenta loro in borghese.

Il suo libro per quanto romanzato è fortemente autobiografico. Riccardo, infatti, ha fatto propria la missione di riuscire a rendere fruibile e comprensibile a tutti la Divina Commedia. È presidente dell’Associazione Culturale Amici di Dante in Casentino che si  occupa di far riscoprire i luoghi danteschi e dal 2021 ha lanciato la prima piattaforma e-learning per spiegare in maniera semplice e chiara il testo che ha dato vita alla lingua italiana, DANTFLIX. Trovate Riccardo Starnotti su Instagram e Facebook come @viajandocondante 






lunedì 31 ottobre 2022

“Poesie di Don Francesco dei Medici a Mad. Bianca Cappello” tratte da un Codice della Torre al Gallo dal Conte Paolo Galletti

Il volume si apre con il racconto della storia di Bianca Cappello, la bellissima veneziana che all’età di appena sedici anni fuggì insieme al suo innamorato Piero Buonaventuri (o Pietro Bonaventuri).

Correva l’anno 1563, i due giovani si rifugiarono a Firenze nella casa paterna di lui dove convolarono a nozze. 

Lo scandalo suscitato dalla loro fuga fu grande e fin da subito giunsero terribili notizie da Venezia dove i potenti parenti di Bianca istigarono la Serenissima ad emettere terribili bandi nei confronti dei fuggitivi. I Medici, però, vennero in loro soccorso e la coppia poté rimanere a Firenze.

In verità, a dispetto dell’aiuto mediceo, il finale non fu il classico ...e vissero felici e contenti o, almeno, non vissero felici e contenti insieme a lungo nonostante la nascita di una figlia, Pellegrina.                                                                  

Bianca divenne dapprima amante di Francesco de’ Medici e poi, rimasti vedovi entrambi, lo sposò diventando così granduchessa di Toscana; il Buonaventuri, invece, ottenne l’incarico di Guardarobiere del Principe, quasi una sorta di risarcimento per l’infedeltà della moglie.

Il Buonaventuri, da parte sua, non si fece mancare numerose avventure, spesso anche con donne di alto lignaggio, e proprio una di queste scappatelle potrebbe essere stata la causa della sua morte. Diciamo potrebbe perché, se è certo che perì di morte violenta, per quanto riguarda movente e mandante tutto resta ancora avvolto nel mistero.

Così come ancora un caso irrisolto resta quello della morte di Francesco e Bianca avvenuta a poche ore di distanza nella villa di Poggio a Caiano. L’indiziato numero uno fu spesso visto nel successore di Francesco I, il di lui fratello Ferdinando I, ma non vi sono prove tranne l’odio che questi nutriva per Bianca tanto da farne oggetto di una vera e propria damnatio memoriae.

Il libro, contrariamente a quanto sembrerebbe suggerire il titolo, non riporta per intero le poesie che Francesco scrisse per Bianca Cappello.

Il volume si propone piuttosto come uno studio del codice Mediceo-Cappelliano ovvero un Codice della Torre al Gallo che il Conte Paolo Galletti esamina con l’intento principale di provare la paternità dell’opera.

Confutando possibili altre attribuzioni, e lasciando solo un timido spiraglio per un’attribuzione a Torquato Tasso che scrisse poesie in onore di Bianca Cappello, l’autore analizza alcuni versi cercando di identificarne anche il periodo in cui questi furono scritti.

Dalle letture delle poesie sembrerebbe abbastanza certo che Bianca Cappello non avesse ceduto subito alle lusinghe d’amore del Principe così come sembrerebbe evidente che la gelosia fosse sentimento comune ad entrambi. Da un lato leggiamo di un risentimento da parte di Bianca quando obbligato dalla Ragion di Stato il Medici è costretto a sposare la rigida Giovanna d’Austria, dall’altro del tormento e dei dubbi che assalgono il Principe poiché a Bianca non mancano di certo corteggiatori ed estimatori.

Il libro è poi corredato di diverse appendici nelle quale vengono approfonditi gli argomenti accennanti nelle pagine dedicate al commento dei madrigali.

Tra questi vanno ricordati anche alcuni componimenti che il Principe dedicò ai fratelli Giovanni e Garzia morti anch’essi in circostanze misteriose allorquando Francesco si trovava alla corte di Madrid.

Le malelingue riportarono allora un racconto che voleva la morte di Giovanni avvenuta per mano del fratello, forse per un incidente di caccia, e la morte di Garzia per mano del padre, il Granduca di Toscana Cosimo I, accecato dal dolore per la perdita del figlio prediletto Giovanni.

Un po’ forzatamente l’autore del volume tende a voler vedere nei versi di Francesco de’ Medici quasi una conferma di tale apparente calunnia.

Nel libro, poi, non mancano alcune imprecisioni come laddove si attribuisce la morte di Isabella de’ Medici al marito Paolo Orsini e al padre Cosimo I. in verità, se Isabella davvero fu assassinata dal marito, ciò avvenne con la complicità del fratello Francesco I e non del padre che non solo all’epoca era già passato a miglior vita, ma che nutrì sempre una particolare predilezione per quella figlia dall’intelligenza tanto vivace.

Nell’insieme si tratta di una lettura molto particolare, suggestiva e piacevole che non manca di indicare nuovi spunti di lettura e di interpretazione sia sulla storia tra Bianca e Francesco sia sulle vicende dell’epoca in cui essi vissero.

Il libro edito a Firenze nel 1894 è reperibile sul mercato secondario.





domenica 1 agosto 2021

“Nuvole al tramonto” di Domenico Corna

Sin da bambina Martina era stata piuttosto complicata tanto che i suoi genitori avevano incontrato numerose difficoltà nel gestire quel suo essere diverso.

Non interagiva con gli altri bambini perché non comprendeva come loro potessero essere appagati di usare la loro fantasia per riprodurre per gioco la vita reale degli adulti. 

La fantasia di Martina aveva ali più grandi, era capace di creare nuovi mondi. Martina era dotata di una sensibilità fuori dal comune, soffriva quando d’autunno le foglie cadevano dagli alberi e amava parlare non solo con i cani, ma con tutti gli esseri viventi.

Martina, costretta tanto tempo prima dai genitori e dalla vita a dimenticare quell’universo di bambina fatto di fantasia, si trova un giorno all’improvviso nuovamente avvolta da quel suo mondo immaginario.

Lei però non è più la Martina di un tempo, ne è spaventata e non lo riconosce; da adulta non comprende come possa esserci un mondo dove coesistano montagne innevate accanto ad aridi deserti, dove dal fitto dei boschi di abeti ci siano scoiattoli burloni che si divertono a tirare ghiande ai passanti.

La giovane si sente perduta così divisa tra due mondi, quello della fantasia e quello della realtà. Non sarà facile per lei ricomporre il puzzle, affrontare quella che ha tutto l’aspetto di essere una malattia; ci vorrà davvero una grande forza di volontà per superare la paura che l’attanaglia e la diffidenza di chi le sta accanto.

Il libro di Domenico Corna è un libro molto particolare e di non facile classificazione: fantasy, drammatico, contemplativo, filosofico.

È un libro evocativo in cui il lettore viene indotto a perdersi nel flusso di riflessioni e ricordi della protagonista. Spesso il lettore si trova egli stesso a fluttuare tra quelle nuvole rosse che portano con sé storie e pensieri.

Martina è una novella Alice nel paese delle meraviglie, ma anche un piccolo principe che incontra la volpe. Ginetta ed Edi accompagnano Martina nel suo difficile percorso alla ricerca di se stessa come fantasmi del Natale dickensiano.

“Nuvole al tramonto” è anche un romanzo che racconta il disagio giovanile e lo fa attraverso le storie dei ragazzi della piazza che Martina frequenta per un periodo della sua vita. Sono le storie di Daniele con la sua chitarra, di Laura con la passione per la politica, di Giulio il ragazzo sensibile che cade vittima dell’eroina, di Luisa in perenne fuga dalla madre prostituta, del piccolo Giovanni che grazie all’intervento di Martina riesce a salvarsi in tempo e a ricostruire il rapporto con la madre.

“Nuvole al tramonto” ci parla dei difficili rapporti genitori-figli, dell’incomunicabilità e della difficoltà di riuscire a fare le scelte giuste, ci parla delle fragilità di ciascuno di noi e della paura di crescere, ma  soprattutto ci spiega quanto siano importanti la fantasia e l’immaginazione nelle nostre vite perché

Due sono le vite: una da vivere, un’altra da inventare. La prima si è spesso costretti a viverla come viene. Talvolta si riesce a cambiarla e allora sembra che tutto funzioni bene, talvolta invece non funziona per niente. Ma c’è un’altra vita, ti può condurre dove non esiste l’angoscia, lontano dagli incubi. Non nasce quando nasce il corpo e non termina quando bisogna lasciarlo. Esiste da sempre, lì ad attenderti.




domenica 13 dicembre 2020

“Il viaggio dolce” di Marina Plasmati

Aprile 1836, una carrozza si ferma davanti a villa Ferrigni.

La villa, posta su una collinetta a metà strada tra Torre del Greco e Torre Annunziata, è una costruzione seicentesca ad un solo piano, in stile pompeiano.

Ad accogliere i visitatori sul portico ci sono il fattore Giuseppe e la moglie Angiola Rosa. Ma chi sono gli occupanti della carrozza che sono giunti alle pendici del Vesuvio per beneficiare del suo salubre clima?

Si tratta del cognato del proprietario, il signor cognato, la sorella di questi, la cognata più giovane, ossia la signorina Paolina e infine lui, l’ospite di riguardo.

L’ospite appare immediatamente come una persona malata che ha bisogno di aiuto anche per scendere dalla carrozza, aiuto che l’amico, il signor cognato, si appresta a fornirgli premurosamente.

Fin da subito si intuisce che l’ospite è una persona gentile e schiva, attenta a non dare fastidio al prossimo così come a riceverne a sua volta il meno possibile.

Pagina dopo pagina si conoscerà sempre meglio la personalità di quest’uomo dall’ingegno straordinario condannato a vivere in un corpo malato e deforme, quasi che la potenza della sua mente avesse assorbito come un vampiro famelico tutto il resto delle sue energie vitali.

L’ospite di riguardo non è una persona priva di difetti, goloso di dolci, a volte capriccioso e indubbiamente eccentrico, sa però come farsi amare per la sua dolcezza e per la sua grande capacità di ascoltare.

Le persone più umili restano affascinate dai suoi modi gentili e ne sono conquistate perché lui non è un “signore” come tutti gli altri; lui, al contrario degli altri, ama ascoltare le loro storie semplici e i loro racconti di vita contadina.

Il fattore Giuseppe e il figlio maggiore di questi, Cosimo, trascorrono molto tempo in compagnia dell’ospite tanto da provocare quasi la gelosia del signor cognato nel vedere l’amico così coinvolto nelle conversazioni con qualcun altro che non sia lui e per giunta di così bassa estrazione sociale.

Come avrete già capito l’ospite di riguardo, benché nel libro non venga mai fatto il suo nome, altri non è che il poeta Giacomo Leopardi e il cognato del padrone della villa è il suo amico Antonio Ranieri.

Il romanzo racconta di quei giorni che, dall’aprile al luglio del 1836, Giacomo Leopardi trascorse a villa Ferrigni in compagnia dell’amico fraterno.

Ne “Il viaggio dolce” Marina Plasmati cerca di immaginare come il poeta avesse passato quelle sue giornate vesuviane.

Ci racconta di un Leopardi che trascorreva ore dalla finestra della sua camera ad osservare la vita degli altri scorrere là fuori, come era solito fare dalla finestra della biblioteca della casa paterna a Recanati, a visitare gli scavi di Pompei e, quando la salute malferma glielo permetteva, anche a fare escursioni a dorso di mulo lungo le pendici del vulcano.

Traendo ispirazione da uno dei Canti che il poeta scrisse proprio in quei giorni, “La ginestra o il fiore del deserto”, il romanzo Marina Plasmati narra una storia forse non completamente reale, ma senza dubbio alquanto verosimile.

I dialoghi stessi che si svolgono tra Giuseppe, Cosimo e l’ospite di riguardo prendono spunto proprio dal Canto leopardiano; ne sono un esempio Giuseppe che parla al poeta del pozzo dove il ribollire dell’acqua è segnale dell’avvicinarsi della lava, Cosimo che gli racconta dei fiori della ginestra durante la loro prima escursione e la stessa descrizione degli scavi di Pompei.

Marina Plasmati resta sempre fedele nel suo racconto al pensiero leopardiano, non tradisce mai la sua poetica; quello che incontriamo nelle pagine del romanzo è proprio il Giacomo Leopardi degli ultimi anni, il poeta polemico nei confronti della poesia idealistica romantica, l’uomo che ormai non teme più la morte e che sa di non avere più dalla sua parte l’entusiasmo, l’ardore e la forza che contraddistinguono invece la gioventù.

Nonostante la disillusione però Leopardi crede ancora nel valore della poesia che, tenace come la ginestra che resiste nel deserto, è un miracolo in mezzo allo squallore dell’esistenza umana; la poesia incarna per lui quel desiderio di vita che, seppur destinato a rimanere inappagato, resiste perché inestirpabile.

“Il viaggio dolce” è un racconto che sa toccare il cuore del lettore, un racconto commovente e profondo le cui pagine spesso sono vera poesia in prosa.

Delicato e intenso, il libro di Marina Plasmati è un romanzo in grado di emozionare tutti, non solo gli appassionati della poesia leopardiana, talmente coinvolgente da provare spesso lo strano desiderio di leggerlo ad alta voce.

“Il viaggio dolce” è uno di quei libri che se siete soliti sottolineare i passi più significati o che più vi commuovono, vi ritroverete presto con pochissime righe intonse.

Nel consigliarvene quindi la lettura, vi saluto con le bellissime parole con le quali Cosimo, il figlio del fattore, descrive uno dei poeti da me più amati:

Non lo capiva, era vero, ma lo sentiva, però, che quel signore non era un signore come gli altri, un padrone come gli altri: e non solo perché era tanto gentile, come diceva suo padre, o tanto malato. Il suo sguardo, per esempio, non era uno sguardo qualunque, era come se avesse il mondo dentro il cuore, non davanti agli occhi, come se le cose, anche le più piccole, le più insignificanti, prendessero posto dentro di lui e ci rimanessero.



 

venerdì 9 agosto 2019

“milk and honey” – “the sun and her flowers” di Rupi Kaur


Rupi Kaur è nata in India e da giovanissima si è trasferita in Canada con i genitori.

Incoraggiata fin da bambina dalla madre ad esprimere i propri sentimenti attraverso il disegno e la pittura, ha coltivato fin da piccola il suo interesse per l’arte.

Ha iniziato a pubblicare i suoi lavori attraverso i social media soprattutto utilizzando Instagram che, più di ogni altro social network, si prestava alle sue opere che consistevano in brevi poesie corredate da schizzi e disegni.

Grazie al grande successo ottenuto sui social, Rupi Kaur è divenuta ben presto anche un caso editoriale internazionale tanto che la sua prima raccolta di poesie “milk and honey” è stata pubblicata in ben 35 paesi.

La sua attesissima seconda raccolta di poesie “the sun and her flowers” non ha deluso le aspettative dei lettori ed il libro si è insediato al numero uno delle classifiche sin dal primo giorno della sua uscita.

Entrambi i volumi, corredati dagli schizzi ad opera della stessa Rupi Kaur, sono divisi in capitoli i cui titoli sottolineano le tappe del cammino lungo il quale i versi conducono il lettore; percorsi di crescita, di salvezza e di guarigione.

“milk and honey” è suddiviso in quattro capitoli: il ferire – l’amare – lo spezzare – il guarire

“the sun and her flowers” è invece suddiviso in cinque capitoli: l’appassire – il cadere – il radicare – il crescere – il fiorire

Le poesie di Rupi Kaur parlano di amore e di dolore, di perdita e di rinascita, parlano di femminismo, di violenza sulle donne e di emancipazione.

I temi trattati da Rupi Kaur sono trattati in maniera personale, ma in realtà coinvolgono tutte le donne in quanto sono temi drammaticamente universali che trovano un pronto riscontro nelle esperienze quotidiane del mondo femminile.

Caratterizzate da poche parole e brevi frasi, le sue poesie possiedono una forza dirompente ed inaspettata che colpisce il lettore come un pugno nello stomaco.

La poesia di Rupi Kaur racconta le tante fragilità dell’universo femminile, ma allo stesso tempo ne esalta anche la resilienza, spronando le donne ad amarsi di più ed incoraggiandole a credere in se stesse.

Personalmente non posso dire di amare profondamente tutta la poetica di Rupi Kaur; le sue poesie sono spesso troppo dirette e schiette ed io non amo particolarmente questo genere di poesia.

In questi due volumi però ci sono anche molte poesie che parlano in modo struggente ed appassionato ai nostri cuori di sogni e di speranze, di delusioni e di aspettative disattese, di amori perduti e di amori appena nati; ecco sono questi suoi versi delicati e tormentati quelli che prediligo.

A Rupi Kaur però, al di là del fatto che possiate amare o meno le sue opere, va riconosciuto il grande merito di aver saputo rivitalizzare la poesia in un’epoca in cui sembrava ormai agonizzante.

Ebbene, Rupi Kaur è riuscita nel miracolo di riavvicinare moltissime persone a questa forma d’arte e  ridare impulso all’editoria che ormai da tanto, troppo tempo considerava la poesia come un “prodotto di nicchia” difficile da vendere.



te ne sei andato
e io ti volevo ancora
però meritavo qualcuno
disposto a restare
(da “the sun and her flowers”)



se me ne sono andata non è perché
avevo smesso di amarti
me ne sono andata perché più
restavo meno
amavo me
(da “milk and honey”)






domenica 9 settembre 2018

“Cento poesie d’amore a Ladyhawke” di Michele Mari

CENTO POESIE D’AMORE
A LADYHAWKE
di Michele Mari
EINAUDI
Michele Mari, classe ’55, è un autore di prosa con all’attivo numerosi romanzi, uno scrittore molto stimato tanto da essere ritenuto uno dei migliori in circolazione.
La raccolta “Cento poesie d’amore a Ladyhawke” (2007) è il suo esordio poetico.

Il titolo del volumetto è un chiaro riferimento ad un famoso film intitolato appunto “Lady Hawke” di Richard Donner del 1985
La storia narrava le vicende di due innamorati che, a causa di una maledizione, erano condannati a non potersi mai incontrare nelle loro sembianze umane; lei, interpretata dalla bellissima Michelle Pfeiffer, di giorno era un bellissimo falco e lui, l’attore Rutger Hauer, di notte si trasformava in un temibile lupo.
I due innamorati, legati da una profonda passione, erano quindi destinati per l’eternità a restare sempre insieme eppure allo stesso tempo eternamente divisi. 

Come gli amanti del film anche il poeta vive un amore romantico e struggente, ed è proprio questo sentimento totalizzante, irrealizzato e irrealizzabile, ad ispirargli questo canzoniere d’amore moderno.

“Cento poesie d’amore a Ladyhawke” è una raccolta di poesie che riesce a ridare voce alla grande tradizione della poesia d’amore latina e medievale, rendendola quanto mai viva e moderna attraverso l’utilizzo di riferimenti alla realtà contemporanea; i richiami al cinema horror piuttosto che alla pubblicità ne sono un evidente esempio.

Fra il mulino bianco
e gli anelli di Saturno
la tua scelta era scontata

Ma non immaginerai mai
quanta farina
possono macinare quegli anelli

L’opera di Michele Mari si rifà, rivisitandone i versi, alle poesie della tradizione: al dolce stil novo, a poeti come Dante e Petrarca, solo per citarne alcuni, e così via fino ai nostri giorni con richiami a Pavese e Pascoli, senza tralasciare numerosi riferimenti anche alla filosofia.

Verrà la morte e avrà i miei occhi
ma dentro
ci troverà i tuoi

La donna amata da Mari è una donna reale, una compagna dei tempi del liceo. Un amore nato sui banchi di scuola, un amore mai dichiarato, ma non per questo meno intenso e vero. 
Uno di quegli amori che a volte è meglio non svelare a nessuno, neppure alla persona amata, forse per paura di un rifiuto o semplicemente perché si preferisce vivere nel dubbio.

Quando l’amore si rivela, quando i sentimenti di scontrano con la vita di tutti i giorni, la poesia potrebbe andare perduta e allora forse è preferibile accettare di rimanere nel limbo delle cose sospese.

Tertium dabatur
e sarebbe stato vivere
sfiorandoci

Ed è proprio quello che accade dopo trent’anni a Mari quando un giorno per caso ritrova la sua compagna di scuola. 
Dopo essersi confessati il loro reciproco amore adolescenziale, tra i due inizia una fitta corrispondenza, ormai però è troppo tardi per recuperare e lei non se la sente di fare un salto nel buio abbandonando la vita che si è costruita nel corso degli anni.

Certi amori sono nati per rimanere solo un’illusione, qualcosa che non deve essere contaminato dalla routine e dalla consuetudine.

Arrivati a questo punto
dicesti
o si va oltre
o non ci si vede più

Non capivi che il bello era proprio quel punto
era rimanere
nel limbo delle cose sospese
nella tensione di un permanente principio
nel nascondiglio di una vita nell'altra

Così il mio contrappasso di pokerista
è stato perdere tutto
appena hai forzato la mano

Quello cantato da Mari è un amore cerebrale, platonico e puro che scontrandosi con la realtà è destinato a perire. 
È un amore sospirato che non deve avere la possibilità di concretizzarsi carnalmente e quotidianamente perché ciò lo estinguerebbe inesorabilmente.

Ti cercherò sempre
sperando di non trovarti mai
mi hai detto all'ultimo congedo

Non ti cercherò mai
sperando sempre di trovarti
ti ho risposto

Al momento l’arguzia speculare
fu sublime 
ma ogni giorno che passa 
si rinsalda in me
un unico commento
ed il commento dice 
due imbecilli.

“Cento poesie d’amore a Ladyhawke” è un libro audace in un mondo dove i libri di poesia vendono pochissime copie e vengono sempre più visti come un prodotto editoriale di nicchia.
Michele Mari affronta con coraggio un tema, quello dell’amore esclusivo e totalizzante, che è una delle tematiche più sfruttate di tutti i tempi, ma riesce a farlo senza mai risultare banale; le sue poesie sono la testimonianza di un’ossessione privata, una lucida analisi dei mostri e dei tormenti che assillano la mente umana. 





mercoledì 2 agosto 2017

“L’arte di essere fragili” di Alessandro D’Avenia

L’ARTE DI ESSERE FRAGILI
di Alessandro D’Avenia
MONDADORI
La poesia è un messaggio in bottiglia che vive nella speranza di un dialogo differito nel tempo”, così Leopardi diventa nelle pagine del libro di Alessandro D’Avenia il destinatario di un immaginario epistolario che l’autore intrattiene con il poeta.

Un escamotage singolare ed efficace che permette a questi di aprire un simbolico dialogo quanto mai interessante tra il poeta nato tanti anni fa e l’uomo contemporaneo.

Attraverso l’opera leopardiana comprendiamo che lo sconforto, il senso di straniamento, la malinconia non sono propri di una sola epoca, ma sono insiti nell’uomo.

Egli, poeta moderno, era stato in grado più di altri di comprendere quel senso di noia, di indifferenza che spesso afferra gli esseri umani. Ma proprio quella sua sensibilità nel cogliere tali sensazioni lo portava a cercare di superarle; egli non era pessimista, non si arrendeva ma piuttosto sapeva accettare la sua fragilità di uomo.
Egli non rinunciava mai ad essere se stesso.

Ed è proprio questo il più grande insegnamento che possiamo trarre da Giacomo Leopardi ovvero che, se vogliamo essere felici o quantomeno provare ad esserlo, dobbiamo sempre essere fedeli a noi stessi.
I desideri, i dolori, le passioni, l’amore sono i catalizzatori del nostro destino in quel caos che è la nostra fragile esistenza.
L’unico modo per sopravvivere è non tradire il proprio rapimento di qualunque genere esso sia. La passione e l’amore sono le uniche cose che ci possono rendere felici.
In un mondo che corre veloce, dove ciò che importa sono solo i risultati, dove ci viene richiesto di essere sempre perfetti, dove la forma e l’apparenza sono le uniche qualità che contano, troppo spesso noi ci dimentichiamo di sorridere.
Siamo talmente concentrati nel tentativo di raggiungere gli obiettivi imposti dalla società che, nei rari momenti in cui ci sembra di essere felici, abbiamo talmente paura che questo stato di grazia sia semplicemente un’illusione da rovinarlo inevitabilmente con le nostre stesse mani.

Quando ho detto ad un amico che avevo comprato questo libro ed ero davvero curiosa di iniziarne la lettura, mi sono sentita rispondere “Leopardi? ancora? Ma sì sì, anche a me al liceo piaceva, lo sentivo affine, ma poi si cresce”.
Mi chiedo cosa voglia dire per le persone “crescere”? Chiudere i propri sogni in un cassetto? Rinnegare i propri rapimenti e quindi rinunciare a “vivere”?
Leopardi aveva compreso che non è possibile smettere di essere fedeli a se stessi anche se, come lo stesso D’Avenia scrive, la speranza è un’arte che ha il suo prezzo.
Quando le speranze sono disattese l’unico modo per sopravvivere al dolore, alla perdita è colmare il vuoto traendo la forza dalle nostre passioni, dal nostro rapimento.

Leopardi, come D’Avenia ci racconta, era tutt’altro che un uomo pessimista; egli era in realtà un uomo coraggioso pur nella sua fragilità, un uomo che amava la vita e amava gli uomini, credeva nell’amicizia, era ghiotto di dolciumi e gelato e amava guardare il cielo stellato.

Come l’autore stesso scrive, questo volume non è una biografia né tanto meno vuole avere la pretesa di essere un’opera di critica letteraria, ma più semplicemente vuol essere un libro che nasce con l’intento di regalare al lettore l’immagine di un Leopardi diverso, più vero.
Il senso dell’opera di D’Avenia è racchiuso in queste poche righe tratte dal libro e che riporto fedelmente:

Caro Giacomo vorrei che tu fossi ricordato come poeta del destino e non della sfortuna, della malinconia e non del pessimismo. Come poeta della vita che lotta per trovare la sua destinazione e il suo senso, e non come poeta della gobba e della gioia negata.

Lo stile della scrittura è colto e raffinato, ma allo stesso tempo semplice e chiaro.
“L’arte di essere fragili” è una lettura appassionante e l’idea dell’autore di inserire aneddoti riguardanti le sue esperienza di vita e delle persone a lui vicine (alunni, lettori dei suoi libri, famigliari) rende il romanzo ancora più godibile e scorrevole.

Il sottotitolo del libro è “come Leopardi può salvarti la vita”. Non so se il pensiero leopardiano possa davvero salvare la vita, di certo Giacomo Leopardi è un poeta che ho sempre amato e il mio giudizio riguardo al suo potere salvifico o meno sarebbe troppo di parte.
Come D’Avenia scrive, però, la letteratura serve a fare interrogativi e senza dubbio “L’arte di essere fragile” di quesiti ne pone molti.
Forse non vi troverete le risposte di cui avete bisogno, ma in fondo anche lo stesso Giacomo Leopardi lasciava aperti molti interrogativi nelle sue poesie.
Forse alla fine la risposta è proprio questa: tutti ci poniamo delle domande e il sapere di non essere i soli a porsele, sapere che insicurezze e perplessità fanno parte di tutti noi, è già un primo passo verso la salvezza in questo nostro faticoso mestiere di vivere.






domenica 13 settembre 2015

“Keats. Lettere sulla poesia”

KEATS
LETTERE SULLA POESIA
a cura di Nadia Fusini
MONDADORI
Le lettere di John Keats sono una testimonianza fondamentale della sua attività letteraria.

Il suo epistolario contiene, infatti, non solo le più belle lettere mai pubblicate in lingua inglese, ma anche alcuni fondamentali principi della sua poetica.

L’epistolario di Keats copre un periodo di cinque anni; la selezione delle lettere del volume a cura di Nadia Fusini coprono il periodo che va dal 17 aprile 1817 (lettera a John Hamilton Reynolds) al 30 novembre 1820 (lettera a Charles Brown).

Le lettere sono caratterizzate da un tono intimo, modesto e familiare; nella fretta della scrittura a volte queste risultano persino un po’ sgrammaticate.
Sono dialoghi intrattenuti non solo con i famigliari (la sorella, i fratelli e la donna amata), ma anche con gli amici (Brown, Bailey, Haydon, Dilke solo per citarne alcuni), gli editori (John Taylor e James Augustus Hessey) e con personaggi del calibro di Percy Bysshe Shelley, che nutriva un’opinione altissima di John Keats.

A tal proposito molto interessanti ed esaustive sono le “Notizie sui corrispondenti di Keats” poste al termine del volume.

Due sono i temi principali delle lettere di Keats: la poesia ed il “pensiero dominate” della propria morte.

La vita di Keats era strettamente legata alla poesia; egli viveva, respirava poesia ogni attimo della propria vita, così che va da sé che non solo le lettere stesse contengano le poesie, ma le poesie stesse nascano proprio da queste.

Ho scoperto che non riesco a vivere senza la poesia – senza la poesia eterna – non mi basta metà della giornata – mi ci vuole tutta. Ho cominciato con poco, poi l’abitudine mi ha reso un Leviatano.
(lettera a Reynolds del 18 aprile 1817)

Secondo Keats al poeta non è necessaria l’individualità, ma piuttosto la perdita di essa.
La poesia dovrebbe venire all’uomo spontaneamente, naturalmente; la parola deve venire come “all’albero le Foglie, o non venire affatto (lettera a Taylor del 27 febbraio 1818).

La poesia dovrebbe essere grande, ma non indiscreta, qualcosa che ti entra nell’animo, ma non lo sconcerta, né lo stupisce, se non per il suo contenuto.
(lettera a Reynolds del 3 febbraio 1818)

La poesia per Keats non ha potere salvifico, salvare il mondo non può essere il suo scopo. La poesia è apertura verso l’al di là, verso il mondo dell’Altro.
La poesia è risposta al manifestarsi dell’infinito nel mondo finito delle cose e degli esseri, la poesia risiede tra il mondo dei sensi e quello del pensiero, il poeta vive sospeso tra i due mondi.

Il poeta non ha un’identità, non ha un io ed è la “più impoetica di tutte le creature”.
La più grande qualità che un poeta deve possedere per Keats è la Capacità Negativa qualità che egli riconosceva in massimo grado a Shakespeare, ovvero la capacità “di stare nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione”. (lettera a George e Tom Keats del 21 dicembre 1817).

Keats morì giovane, ad appena 25 anni, lasciandoci tra le sue opere sei odi tra le più belle che mai furono scritte, ma insoddisfatto della sua produzione, sempre in attesa di scrivere la poesia perfetta.

Bellissime le lettere a Fanny Browne, la donna amata dal poeta, che meritano senza dubbio un breve accenno.
Se siete comunque interessati alle lettere di Keats a Fanny, vi consiglio il volume “Leggiadra Stella. Lettere a Fanny Brawne” edito da Archinto.

Le lettere di John Keats a Fanny sono intense, commoventi e terribilmente romantiche.
Quando incontrò il poeta Fanny era una ragazza di appena diciotto anni allegra, vivace e curiosa, Keats invece era estremamente geloso, sospettoso, esigente, facilmente irritabile e spesso contradditorio. La loro storia d’amore fu profonda e tormentata.

Devo confessare che ti amo ancora di più perché credo che ti sono piaciuto per me stesso e nient’altro – ho incontrato donne che avrebbero voluto sposare una Poesia e si sarebbero date con tutto il cuore a un Romanzo.
(lettera a Fanny Brawne dell’ 8 luglio 1819)

Sono sempre rimasto stupefatto dinnanzi a chi moriva da martire per la religione – l’amore è la mia religione – io potrei morire per amore – potrei morire per te. Il mio unico credo è l’amore e tu il mio solo dogma. Mi hai rapito in virtù di un potere a cui non so resistere: eppure ho resistito fino a quando ti ho visto, e anche dopo che ti ho visto ho cercato spesso “di ragionare contro le ragioni dell’amore”. Non posso più farlo – la sofferenza sarebbe troppo grande – il mio amore è egoista – non respiro senza di te.

E malgrado questo sono contrario a vederti, non sopporto uno sprazzo di luce per poi tornare nelle tenebre.
(…)
Vorrei che tu mi infondessi un po’ di fiducia nel genere umano. Io non so trovarne nessuna – il mondo è troppo brutale per me – sono contento che ci siano le tombe – sono sicuro che non avrò riposo se non li.
(lettera a Fanny Brawne, agosto 1820)

Concludo il post con un'informazione definiamola di servizio. Per chi fosse interessato al libro, il volume è purtroppo attualmente fuori catalogo.
Io ho avuto la fortuna di riuscirne a reperire una copia anche se un po’ ingiallita presso una piccola libreria tra le giacenze di magazzino, ma nel caso non riusciste a scovarne alcuna, il consiglio è di dare un’occhiata ogni qualvolta vi troviate nei pressi di qualche bancarella di libri usati.

Buona caccia al tesoro!



sabato 25 aprile 2015

“John Keats” di Stephen Hebron

JOHN KEATS
di Stephen Hebron
THE BRITISH LIBRARY
Ho acquistato questo libro durante la mia recente visita alla Keats-Shelley House a Roma, visita irrinunciabile ogni volta che mi trovo nella Città eterna.

Sul sito della casa museo di Piazza di Spagna è in vendita la traduzione italiana del volume, ma al momento ne erano sprovvisti e così ho deciso di acquistare l’edizione originale in lingua inglese della British Library appartenente alla collana “Writers’ lives”.

Il volume è comunque di facile lettura anche per coloro che non sono madrelingua e la veste grafica è davvero piacevolissima.

Il racconto della vita del poeta è molto dettagliato. Hebron non solo racconta i fatti più importanti della vita di John Keats (Londra 1795 – Roma 1821), ma ci dà anche un quadro preciso del suo carattere.

Ci racconta dei suoi famigliari e dei molti amici che egli seppe legare a sé grazie al suo carattere aperto, al suo entusiasmo per la vita ed alla sua energia.

Leggiamo dei suoi viaggi, del suo amore per Fanny Brawne, delle sue aspettative attese e disattese, delle sue insicurezze, dei suoi momenti di felicità e delle sue paure, dei suoi successi, ma anche delle critiche che non gli furono di certo risparmiate.

Hebron non tralascia di informare a grandi linee il lettore sulla poetica di John Keats e lo fa spesso riportando versi tratti dalle opere oltre che stralci di lettere.

Proprio le lettere, caratterizzate da un tono intimo e colloquiale, hanno un fascino senza tempo e sono una fonte tanto inesauribile quanto fondamentale per conoscere a fondo non solo l’uomo John Keats, ma anche l’attività poetica dello stesso.

traduzione italiana
A detta di T.S. Eliot le lettere di Keats sono da ritenersi “le più straordinarie e le più importanti, che siano mai state scritte da un poeta inglese”.

Ricordo, per chi fosse interessato all’argomento, il libro edito da Mondadori “Keats. Lettere sulla poesia” a cura di Nadia Fusini, del quale spero di potervi parlare più dettagliatamente in un prossimo post.

John Keats” di Stephen Hebron è impreziosito da innumerevoli illustrazioni: troviamo, infatti, dipinti dell’epoca, riproduzioni dei luoghi, moltissimi ritratti del poeta oltre ad alcuni dei suoi famigliari e delle persone che fecero parte della sua vita e a lui furono strettamente legate tra cui Charles Wentworth Dilke, Charles Cowden Clarke, la stessa Fanny Brawne solo per citarne alcuni.

Sono inoltre interessanti le tavole che riproducono gli originali delle lettere e dei manoscritti del poeta.

Come avrete capito “John Keats” di Charles Hebron non può non far bella mostra di sé nelle librerie di tutti coloro che amano questo poeta che i pittori preraffaelliti classificarono pari a Dante, Omero, Chaucer e Goethe e che oggi viene ormai riconosciuto come uno dei più grandi poeti del romanticismo inglese e in verità non solo del periodo romantico.

“I think I shall be among the English Poets after my death” (John Keats)

Qualche foto della stanza di John Keats scattata durante la mia visita alla Keats-Shelley House 











domenica 27 luglio 2014

Eduardo De Filippo (1900-1984) e "Le poesie"


Sono nato a Napoli il 24 maggio 1900, dall’unione del più grande attore-autore-regista e capo-comico napoletano di quell’epoca, Eduardo Scarpetta con Luisa De Filippo, nubile. Ma ci volle del tempo per capire le circostanze della mia nascita perchè a quei tempi i bambini non avevano la sveltezza e la strafottenza di quelli d’oggi e quando a undici anni seppi che ero “figlio di padre ignoto” per me fu un grosso choc. La curiosità morbosa della gente intomo a me non mi aiutò certo a raggiungere un equilibrio emotivo e mentale. Così, se da una parte ero orgoglioso di mio padre, della cui Compagnia ero entrato a far parte, sia pure saltuariamente, come comparsa e poi come attore, fin dall’età di quattro anni quando debuttai nei panni d’un giapponesino nella parodia dell’operetta Geisha, d’altra parte la fitta rete di pettegolezzi chiacchiere e malignità mi opprimeva dolorosamente. Mi sentivo respinto, oppure tollerato e messo in ridicolo solo perchè “diverso”. Da molto tempo, ormai, ho capito che il talento si fa strada comunque e niente lo può fermare, ma è anche vero che esso cresce e si sviluppa più rigoglioso quando la persona che lo possiede viene considerata “diversa” dalla società. Infatti, la persona finisce per desiderare di esserlo davvero, diverso, e le sue forze si moltiplicano, il suo pensiero è in continua ebollizione, il fisico non conosce più stanchezza pur di raggiungere la meta che s’è prefissa. Tutto questo però allora non lo sapevo e la mia “diversità” mi pesava a tal punto che finii per lasciare la casa materna e la scuola e me ne andai in giro per il mondo da solo, con pochissimi soldi in tasca ma col fermo proposito di trovare la mia strada. Dovrei dire: di trovare la mia strada nella strada che avevo già scelto da sempre, il teatro, che è stato ed è tutto per me. 
(Da “Eduardo De Filippo. Vita e opere”. Arnoldo Mondadori Editore, 1986)


Eduardo De Filippo è conosciuto da tutti come autore di teatro oltre che come regista ed attore, ma pochi sanno però che il grande Eduardo fu anche autore di poesie.
All’inizio si trattava di semplici componimenti giovanili, ma nel corso degli anni questa sua attività divenne complementare alla sua produzione teatrale.

LE POESIE
di Eduardo De Filippo
EINAUDI 

Come lo stesso De Filippo ha più volte raccontato succedeva spesso che durante la scrittura di una commedia la sua ispirazione subisse degli arresti, delle pause e allora per non interrompere il lavoro, dal momento che la voglia di riprenderlo sarebbe stata certamente assente, Eduardo lo accantonava per un momento e, con un foglio bianco dinnanzi a lui, iniziava a buttare giù dei versi che avessero attinenza con i personaggi della commedia a cui stava lavorando.
Nascono così poesie come “Tre ppiccerille” legati alla celebre “Filumena Marturano” o “Donn’Amalia” e “L’enemì” legate a “Napoli Milionaria”.

Il linguaggio di De Filippo non è il linguaggio plebeo che possiamo ritrovare ad esempio in Raffaele Viviani il quale aveva esperienza diretta di un mondo fatto di lavandaie, scugnizzi, domestiche, acquaioli, artigiani...
La lingua di De Filippo è quella della borghesia nel primo novecento e il linguaggio del popolo che lui utilizza nasce dalla sua acuta capacità di osservare quelle categorie di persone che egli non frequenta abitualmente.

Nelle poesie di Eduardo De Filippo troverete tutta quell’ironia che spesso fa sorridere, ma allo stesso tempo fa riflettere, quella sua sottile comicità nella descrizione di personaggi e situazioni che sono sì divertenti, ma spesso anche terribilmente amare.

De Filippo ci racconta la sua Napoli con un paternalismo bonario, ci racconta una Napoli fatta di macchiette e di personaggi che vivono ‘into vascio (nel basso, abitazione poverissima sulla strada), che si ingegna per tirare a campare, che campa ‘a bona ‘e Dio.

Nella produzione teatrale di Eduardo così come nelle poesie c’è tutta la filosofia di un popolo, quello napoletano, per cui la famiglia e i figli vengono prima di tutto “E figlie so' figlie e so' tutt'eguale!" (da "Filumena Marturano"), un popolo abituato a dimenticare i torti subiti “chi avuto-avuto” tipico del famoso detto “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato”.

Non posso dirvi che le poesie di Eduardo siano facilissime da leggere perchè il napoletano è piuttosto ostico per chi è completamente digiuno di questo dialetto, ma le note a piè di pagina facilitano molto chi decida di cimentarsi in questa avventura letteraria.
Da parte mia posso dirvi che lo sforzo sarà ben ripagato perché non solo sono poesie molto interessanti ma sono anche un pezzo di storia del nostro paese.

Mi piacerebbe chiudere questo post con ‘E pparole (tratta dal volume “Le poesie” edito da Einaudi). La scelta di questi versi è stata totalmente casuale perché tutte sono poesie bellissime che meriterebbero di essere lette.


‘E pparole

Quant’è bello ’o culore d' ’e pparole
e che festa addiventa nu foglietto,
nu piezzo ’e carta -
nu’ importa si è stracciato
e pò azzeccato -
e si è tutto ngialluto
p’ ’a vecchiaia,
che fa?
che te ne mporta?
Addeventa na festa
si ’e pparole
ca porta scritte
sò state scigliute
a ssicond’ ’o culore d’ ’e pparole.
Tu liegge
e vide ’o blù
vide ’o cceleste
vide ’o russagno
’o vverde
’o ppavunazzo,
te vene sotto all’uocchie ll’amaranto
si chillo c’ha scigliuto
canusceva
’a faccia
’a voce
e ll’uocchie ’e nu tramonto.
Chillo ca sceglie,
si nun sceglie buono,
se mmescano ’e culore d’ ’e pparole.
E che succede?
Na mmescanfresca
’e migliar’ ’e parole,
tutte eguale
e d’ ’o stesso culore:
grigio scuro.
Nun siente ’o mare,
e ’o mare parla,
dice.
Nun parla ’o cielo,
e ’o cielo è pparlatore.
’A funtana nun mena.
’O viento more.
Si sbatte nu balcone,
nun ’o siente.
’O friddo se cunfonne c’ ’o calore
e ’a gente parla cumme fosse muta.
E chisto è ’o punto:
manco nu pittore
po’ scegliere ’o culore d’ ’e pparole.

(1971)