domenica 19 febbraio 2017

“Qualcosa” di Chiara Gamberale

QUALCOSA
di Chiara Gamberale
LONGANESI
È un giorno speciale al castello: i sovrani Qualcuno di Importante e Una di Noi festeggiano l’arrivo della loro primogenita.

La principessina sin dal primo vagito mostra il suo vero carattere; è evidente che ci sia qualcosa di difficile da spiegare e di pericoloso in quell’esserino che, con un solo acutissimo strillo, annuncia la sua venuta al mondo mandando in 1003 pezzi il lampadario di cristallo.

La neonata mangia troppo, strilla troppo, alterna periodi in cui dorme troppo a periodi in cui dorme troppo poco e, proprio per questo suo essere troppo di tutto, Qualcuno di Importante decide che il nome perfetto per la figlia non possa essere altro che Qualcosa di Troppo.

La principessina cresce rispettata da tutti in quanto figlia di due sovrani amatissimi, ma è una bambina sola e senza amici, i ragazzini Abbastanza infatti, nonostante gli avvertimenti e le richieste delle loro ansiose madri, la evitano.

Loro non sono mai né troppo tristi né troppo annoiati né troppo felici e non possono sopportare la vitalità della principessa sempre in movimento, sempre alla ricerca di nuove avventure.

Quando Qualcosa di Troppo ha appena 13 anni subisce un grave lutto; la regina Uno di Noi muore dopo una lunga malattia.

La principessa ha per la prima volta a che fare con qualcosa di troppo grande e troppo triste per lei, qualcosa che le impedisce persino di piangere.
Per la prima volta avverte un buco nel cuore, lei abituata al troppo pieno avverte il vuoto ed è totalmente incapace ed impreparata a gestire questa nuova sensazione.

Terribilmente spaventata fugge dal castello e, giunta su una collina, incontra il Cavalier Niente, un tipo molto strano che trascorre le sue giornate a non-fare in compagnia di Madama Noia.
Grazie al Cavalier Niente la principessina scopre il valore della meditazione, della noia e del dolce far niente.

Tornata al castello però Qualcosa di Troppo dimentica tutti gli insegnamenti del Cavalier Niente, si getta nuovamente a capofitto in una marea di attività fino a quando anche lei si lascia catturare dalla moda del momento e si chiude in casa assorbita dallo Smorfialibro. 
Il nuovo gioco ha catturato l’interesse di tutti i sudditi del regno ma soprattutto ha catturato quello dei ragazzini Abbastanza con i quali finalmente Qualcosa di Troppo ha qualcosa da condividere.

Preoccupato per la figlia sempre più magra e pallida, Qualcosa di Importante decide che è giunto il momento per Qualcosa di Troppo di sposarsi.
Inizia così la giostra dei pretendenti: la principessa si innamora a turno di Qualcosa di Buffo, Qualcosa di Blu, Qualcosa di Giusto, Qualcosa di Speciale; ogni storia è però destinata al fallimento ed ogni volta che la storia finisce Qualcosa di Troppo avverte la mancanza del Cavalier Niente.

Come andrà a finire ovviamente lo lascio scoprire a voi lettori.

“Qualcosa” di Chiara Gamberale è un volume di appena 180 pagine corredato da bellissime e buffe illustrazioni opera di Tuono Pettinato, pseudonimo del fumettista Andrea Paggiaro.

Il romanzo è una favola moderna che unisce la leggerezza del genere fantastico allo spessore del romanzo classico.
La storia, di per sé bizzarra e divertente, si lascia leggere tutta d’un fiato, ma le impressioni, le idee ed i suggerimenti che trasmette restano dentro di noi a lungo per venire elaborati poi con il tempo. Diciamo che è un libro i cui “effetti” non finiscono con la lettura dell’ultima pagina.

Se dovessi trovare nell’immediato un esempio di opera dello stesso genere credo che penserei a “Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Euxupéry, non tanto per il tipo di prosa, ovviamente quella della Gamberale, è senza dubbio più moderna, impudente ed ironica, ma per la capacità e la grande abilità di entrambi gli autori di riuscire a far passare concetti importanti e profondi con estrema leggerezza e grazia.
Il Piccolo Principe era una favola per bambini che si poteva rivolgere anche ad un pubblico adulto, quella della Gamberale invece si rivolge ad adolescenti ed adulti.

Il romanzo di Chiara Gamberale parla a tutti noi e ci racconta la nostra complessità di persone oltre a denunciare alcuni limiti della società moderna. È impossibile infatti non riconoscere, un esempio su tutti, un chiaro riferimento a Facebook quando ci racconta dello Smorfialibro e di come un uso senza controllo dei social ci impedisca un rapporto diretto con il prossimo allontanandoci dagli altri anziché avvicinarci.

L’autrice attraverso il romanzo ci costringe a pensare ai nostri limiti, ai nostri errori, alle nostre paure.
Ci obbliga a guardarci dentro, a confrontarci con la nostra ossessione di voler riempire continuamente le giornate per non dover affrontare l’ansia del vuoto.

Ci parla dell’amore e di cosa dovrebbe essere davvero per noi cioè libertà e di quello che invece non dovrebbe mai essere ovvero qualcosa che serva per risolvere i nostri guai.

L’amore, se pro­prio dobbiamo usare questa parolona, non è qualcosa che deve risolvere i nostri guai. Anzi, di solito, per quello che non-so, è qualcosa che i guai li aumenta.
«Allora perché tutti lo cercano?»
Tutti gli esserucci umani lo cercano, è vero, ma quasi sempre per il motivo sbagliato. Cercano l’amore per non rimanere soli. Per farsi riempire lo spazio vuoto. E soprattutto perché non ac­cettano che è il puro fatto di stare al mondo la vera avventura.

È difficile leggere questo libro senza filtrarlo attraverso le proprie esperienze personali e non facendo collegamenti con la propria vita di tutti i giorni.

“Qualcosa” è un romanzo che, per essere pienamente apprezzato, chiede al lettore di trovare il coraggio di leggerlo guardandosi dentro, permettendo alla favola di operare la sua magia per far sì che ognuno di noi possa ritrovare la parte più vera di sé stesso e fare pace con il suo essere più profondo.

Non dimenticate mai che “il bisogno è solo un sogno: prima o poi finisce o comunque sfinisce”.

Buona lettura!



domenica 12 febbraio 2017

“Gli occhi della Gioconda” di Alberto Angela

GLI OCCHI DELLA GIOCONDA
di Alberto Angela
RIZZOLI
La Gioconda è il dipinto più famoso al mondo e si stima che venga ammirato al Louvre da circa sei milioni di persone ogni anno.

Su quest’opera d’arte sono stati scritti tantissimi libri e quindi perché scegliere il libro di Alberto Angela in mezzo ad una così sterminata bibliografia?

“Gli occhi della Gioconda” è un libro unico nel suo genere, come ogni libro di questo autore.
Alberto Angela infatti grazie alla sua grande capacità di sintesi riesce ancora una volta a regalarci una storia estremamente coinvolgente ed appassionante, ovvero riesce attraverso un raffinato linguaggio giornalistico dal taglio televisivo, a porgerci un ritratto completo di Monna Lisa non solo in quanto opera d’arte, ma anche come prezioso oggetto inquadrato all’interno di un determinato periodo storico, scientifico e culturale.

Il grande interrogativo del libro è: chi era Monna Lisa nella realtà?

Tutti noi siamo soliti identificarla con Lisa Gherardini, figlia di Antonmaria Gherardini, di famiglia nobile decaduta.
Il nome di Gioconda gli deriverebbe dall’aver sposato, appena quindicenne, un mercante fiorentino, Francesco del Giocondo, rimasto vedovo per la seconda volta.
Proprio lui avrebbe commissionato il ritratto della moglie a Leonardo Da Vinci.

Alberto Angela risponde alla domanda conducendoci alla scoperta di una verità alternativa. Lo fa con il suo infondibile stile, prendendoci per mano con l’intento di farci scoprire nuovi possibili scenari attraverso dettagli e indizi degni di una indagine da spy story.

Angela sostiene che non si possano apprezzare interamente i capolavori dell’arte se non si entra nei dettagli della vita e nei particolari delle esperienze personali che hanno formato l’artista che li ha ideati; allo stesso modo ritiene che non si possono apprezzare le opere d’arte se non si conosce l’epoca in cui l’autore di queste ha vissuto e gli ha dato vita.

Egli lascia quindi che sia proprio la Gioconda stessa ad accompagnarci a Firenze, Milano, Roma, Amboise e in tutti quei luoghi dove Leonardo operò e presentarci così l’artista attraverso la storia del suo dipinto più famoso, parlandoci al tempo stesso delle tecniche pittoriche, degli studi della prospettiva, dei cartoni e dei disegni preparatori opera del grande maestro.

Attraverso Monna Lisa ci avviciniamo al genio del più grande artista del Rinascimento.
Impariamo a conoscere un Da Vinci che dipingeva molto lentamente, che aveva continui ripensamenti ed era talmente perfezionista da intervenire più e più volte sui suoi dipinti anche nel corso degli anni.

Il libro di Alberto Angela non si limita a parlarci solo dell’artista e dell’inventore Leonardo ma anche dell’uomo.
Un uomo descritto dai contemporanei come una persona pacifica, sensibile, gentile eppure capace di progettare terribili macchine da guerra.

Come gli altri volumi di Alberto Angela, il libro è suddiviso in capitoli ognuno dei quali corredato di bellissime immagini che si integrano perfettamente al testo.

La lettura è piacevole, scorrevole e non si può che rimanere affascinati dal racconto e dalle inaspettate curiosità, alcune tanto singolari da riportarci alla mente argomenti molto diversi e lontani da quello trattato.

Mi riferisco in particolare ad un brano tratto da il “Libro del Cortegiano” (1528) di Baldassarre Castiglione che Alberto Angela cita a sostegno di una delle tesi per l’identificazione di Monna Lisa; ebbene questo passo che vi riporto di seguito mi ha richiamato alla mente un passo di “Orgoglio e pregiudizio” di Jane Austen ed inevitabilmente mi sono ritrovata a chiedermi se la Austen avesse preso spunto proprio da qui per il suo dialogo tra Darcy, Caroline Bingley ed Elizabeth Bennet:

E per rispondere in breve a quello che si è detto finora, voglio che questa donna conosca la letteratura, la musica, la pittura e sappia, danzare e fare festa. Alla modestia e alla capacità di crearsi una buona fama deve unire le stesse doti che sono state consigliate per il buon cortigiano. E così avrà sempre grazia nel conversare, nel ridere, nel giocare, nel chiacchierare; e si saprà intrattenere in modo adeguato e piacevole con ogni persona che incontrerà.

Ma ora basta divagare e torniamo a “Gli occhi della Gioconda”.
Che dire ancora? un altro successo del bravo Albero Angela, un’analisi condotta in modo accurato e dettagliato, che indaga sull’identità della donna la cui figura alla fine dell’Ottocento divenne emblema e simbolo della donna fatale per eccellenza.

Ed è proprio questo, alla fine, il segreto del fascino della Gioconda: che ogni epoca, ogni cultura, ogni singola persona, vede in quel famoso sorriso ciò che corrisponde ai suoi sogni, ai suoi desideri, alle sue fantasie.




domenica 5 febbraio 2017

"La marchesa von O. – Il trovatello” di Heinrich von Kleist

LA MARCHESA VON O.
IL TROVATELLO
di Heinrich von Kleist
IL SOLE 24 ORE
Heinrich von Kleist (Francoforte 1777 – Berlino 1811) è considerato uno dei massimi drammaturghi e scrittori vicini al movimento romantico tedesco. Il suo capolavoro più conosciuto è forse il dramma “Il principe di Homburg”. Tra i suoi più celebri racconti invece possiamo ricordare uno tra i tanti  “La marchesa von O.”  di cui parleremo proprio in questo post.
Heinrich von Kleist visse una vita piuttosto travagliata, segnata da una persistente angoscia esistenziale, sempre alla costante ricerca di una illusoria felicità ideale impossibile da raggiungere.
La sua instabilità psichica lo portò a togliersi la vita insieme alla sua amica Henriette Vogel, malata terminale. La uccise infatti con un colpo di pistola, lei consenziente, per poi spararsi egli stesso un colpo alla testa.

L’edizione da me scelta è un volume della collana “I classici della domenica” in uscita con Il Sole 24 ORE.
In realtà il titolo fa riferimento al solo racconto “La marchesa von O.” ma, a sorpresa, terminata la lettura ci si imbatte inaspettatamente in un altro più breve racconto intitolato “Il trovatello”.

“La marchesa von O.” è ambientato in una città del nord Italia di cui l’autore volutamente non riporta il nome, ma ne indica solo la lettera iniziale “M”.
Gli stessi personaggi sono individuati solo attraverso una lettera puntata: il conte F., il signor G., il generale K. e via di seguito. Quasi che la vicenda narrata sia un fatto realmente accaduto e che l’autore voglia salvaguardare la privacy dei protagonisti della storia.
La marchesa, giovane vedova e madre di due bimbi piccoli, ha appena messo un annuncio sul giornale nel quale chiede al padre del bambino che sta aspettando di presentarsi poiché intenzionata a sposarlo.
Un annuncio quanto mai singolare che, oltre a stupire l’opinione pubblica, sfida ogni decoro e regola imposti dalla buona società.
Attraverso la tecnica del flashback l’autore inizia il racconto dell’antefatto che ha portato la marchesa a compiere questo gesto quanto mai singolare.
Qualche mese prima, mentre dimorava presso la fortezza del colonnello, suo padre, scoppiò improvvisamente una guerra ed il bastione venne conquistato dai soldati russi.
Durante l’assalto la marchesa era stata accerchiata da un manipolo di soldati pronti ad usarle violenza, ma questi furono messi in fuga da un ufficiale in comando dei russi, il conte F., che dopo averla condotta in salvo nell’ala destra del palazzo, la lasciò lì svenuta dove venne raggiunta in seguito dalla sue cameriere.
Alla marchesa ed ai suoi familiari venne permesso, come consuetudine in questi casi, di lasciare la fortezza incolume.
Dopo qualche tempo a Giulietta (questo il nome di battesimo della marchesa) ed alla sua famiglia giunse voce che il conte F. era purtroppo morto in battaglia.
Un giorno però egli si ripresentò, nello stupore generale, a casa della marchesa per chiedere la sua mano, impaziente di ottenere risposta positiva e disposto pure a rischiare la corte marziale, disobbedendo agli ordini, pur di non lasciare la casa finché non avesse raggiunto il suo scopo.
Rassicurato sul fatto che nessun altro pretendente sarebbe stato preso in considerazione fino al suo ritorno, si lasciò convincere a partire alla volta di Napoli.
Al rientro però trovò una situazione completamente mutata: la marchesa era stata cacciata di casa, ripudiata dal padre perché in attesa di un figlio illegittimo.
La marchesa, sconvolta dal suo stato, non ricordava assolutamente nulla; da qui il suo sconsiderato gesto di rendere pubblica la sua situazione purché venisse riconosciuta la sua innocenza.
Stranamente proprio il conte F. sembra non far caso a quanto accaduto e a credere all’innocenza della marchesa. E’ infatti lui il padre del bambino e, nonostante la marchesa acconsenta al matrimonio, dovrà passare un anno prima che Giulietta accetti la validità della loro unione.

“Il trovatello” è il secondo racconto del libro. Antonio Piachi, agiato mercante di Roma, parte alla volta di Ragusa, portando con sé il figlio Paolo, avuto dalla prima moglie. Lascia a casa ad attenderlo Elvira, la sua giovane seconda sposa.
Poco prima di arrivare a Ragusa, giunge la voce che la città sta per essere messa in quarantena a causa di un’epidemia.
La paura per l’incolumità del figlio vince su ogni interesse commerciale e Piachi decide quindi di tornare indietro.
Durante il viaggio di ritorno però un ragazzino malato, Nicolò, colpito dalla malattia gli chiede aiuto e quando sviene davanti a lui, Antonio non se la sente di abbandonarlo a se stesso.
Le guardie però li scoprono nell’albergo dove alloggiano e li scortano fino al lazzaretto a Ragusa. Qui si ammalano di peste sia il Piachi che il figlio Paolo, il primo riuscirà a guarire ma il bambino purtroppo non sopravvivrà.
Antonio Piachi torna quindi a casa portando con sé il giovane Nicolò, anch’egli guarito, che viene accolto come un figlio anche dalla sua giovane moglie.
Antonio ed Elvira riversano su di lui l’amore e le speranze che avevano un tempo riposto in Paolo, e sono molto orgogliosi del loro figliolo non fosse per la sua eccessiva passione per le donne e per la sua bigotteria che lo porta sempre più spesso ad intrattenere strette relazioni con il vicino convento dei monaci carmelitani.
Elvira custodisce però un segreto. La donna aveva perso l’amore della sua vita in giovanissima età, era infatti molto legata ad un giovane genovese che, quando lei era appena tredicenne, era rimasto gravemente ferito nell’impresa eroica di salvarla dalle fiamme. Per tre anni Elvira aveva assistito il giovane, dal nome Colino, presso la casa del marchese suo padre, ma nonostante le sue amorevoli cure il giovane morì. Proprio nella casa del marchese, Antonio conobbe Elvira e dopo la morte di Colino decise di portarla via con sé e sposarla.
Elvira non dimenticherà mai Colino tanto da tenerne un’immagine a grandezza naturale nella sua stanza.
Un giorno, al ritorno da una delle sue fughe notturne, Nicolò rientra abbigliato da antico patrizio genovese e la sua somiglianza con Colino è talmente forte che la povera Elvira crede che questi sia  tornato dal regno dei morti.
Nicolò scopre così il segreto della donna e, desideroso di vendicarsi perché crede che questa voglia allontanarlo dalle grazie di Antonio, decide di giocarle un brutto tiro.
In realtà il padre adottivo che a lui aveva intestato ormai tutto, cerca il modo di tornare sui suoi passi, non perché sobillato da Elivia, ma semplicemente perché irritato dalla condotta immorale del figlio.
Nicolò una sera cerca di approfittare della madre adottiva, ma viene colto sul fatto dal padre.
I genitori vorrebbero cacciarlo da casa, ma lui andandosene gli ricorda che in realtà ormai è lui il solo proprietario di tutti i loro beni.
Elvira muore a seguito della disperazione provata quella notte e Piachi, sconvolto dagli avvenimenti e dal fatto che lo stesso magistrato abbia dato ragione a Nicolò riguardo alle proprietà, affronta il figlio e lo uccide.
Condannato a morte, Antonio Piachi, arriverà addirittura a rinunciare per tre giorni all’assoluzione pur di essere sicuro di poter incontrare nuovamente il figlio adottivo all’inferno dove è sicuro che questi sia andato.

I racconti sono caratterizzati da una prosa scorrevole, frasi brevi e abbondanza di dialoghi. In entrambi Von Kleist usa sapientemente la tecnica del flashback: nel primo per narrare l’antefatto che ha portato la protagonista a mettere l’annuncio sul giornale e nel secondo per ricordare la vicenda di Elvira tredicenne.

“La marchesa von O.” affronta un argomento gradito all’autore ovvero il conflitto tra la rigida morale borghese ed il mondo delle passioni umane. La marchesa rimuove ciò che le è accaduto perché essa stessa vittima delle convezioni sociali, la colpa commessa è talmente grave da non poterne sopportare il peso.
Pur di riuscire a riabilitare se stessa però trova il coraggio di compiere un gesto estremo, scegliendo il rischio di compromettere irrimediabilmente la sua reputazione.
Lo stesso conte F., vittima di quelle stesse ipocrite convenzioni, ha un solo pensiero ovvero quello di sanare l’errore commesso attraverso un matrimonio riparatore.
Il tema affrontato fa von Kleist è il tema del contrasto tra le passioni forti e la razionalità; non c’è posto per il sentimento, perché in un mondo dove regna sovrana la rigida e bigotta morale borghese, dove l’ipocrisia fa da padrona, tutto deve esser ridotto al raziocinio ed alla forma.
Il racconto ha però uno sviluppo divertente e leggero e, nonostante la tematica, il risultato è una piacevole avventura al limite del credibile e dal finale piuttosto prevedibile.

“Il trovatello” invece ricorda molto le novelle boccaccesche, vuoi per la presenza della peste, vuoi per la stessa storia dell’amato morto la cui immagine Elvira tiene nella sua camera, quasi una novella Lisabetta da Messina che sospira sul vaso di basilico dove è sepolta la testa del suo Lorenzo.
Ma questa novella rivela molto di più del suo autore: per esempio ci fa capire  quanto la cultura classica abbia influenzato von Kleist.
Come non ricordare ad esempio il mito greco di Pigmalione? Egli scolpì la statua di Galatea innamorandosene perdutamente e, solo grazie all’intervento divino di Afrodite che le fece prendere vita, Pigmalione riuscì a coronare il suo sogno d’amore e sposare la sua fanciulla.
Nonostante la brevità della novella lo studio psicologico dei protagonisti è davvero moto accurato, vedi ad esempio le reazioni nervose che bloccano Elvira, il modo di elaborare il lutto per la perdita del figlio Paolo trasponendo l’amore per questi sul trovatello Nicolò, il rapporto di amore-odio che Nicolò prova nei confronti della madre adottiva.

L’indagine psicologica dei personaggi è il punto di forza delle opere di von Kleist. In entrambi i racconti i sentimenti ed i comportamenti dei protagonisti vengono studiati ed analizzati fin nei minimi particolari. Egli è ossessionato dalla mente umana e dalla sua follia, così come dai contrasti e dall’illusorietà della vita.
Ossessione che, non dimentichiamo, lo porterà a compiere un gesto estremo quale il suicidio.

“La marchesa von O.” al contrario de “Il trovatello” ha un esito positivo. Ai personaggi del primo racconto è concesso infatti il lieto fine: Giulietta è una donna forte che riesce a ribaltare la situazione a suo favore e ad uscirne vincitrice.
Nel secondo racconto non c’è invece salvezza per nessuno, né in questo mondo né nel al di là; addirittura Piachi vuole seguire Nicolò all’inferno.

Nonostante “La marchesa von O.” sia uno dei racconti più famosi di von Kleist “Il trovatello” è secondo me un racconto più riuscito rispetto al primo.
L’esito positivo della prima vicenda, il voler far credere al lettore che esista sempre una via d’uscita nella vita, sembra quasi una forzatura da parte dell’autore che ho avvertito più vero nel finale senza speranza e cupo del secondo racconto, un finale che sembra decisamente più vicino alle sue corde.

Heinrich von Kleist è un genio tormentato il cui modo di sentire e la sua familiarità con quel male di vivere così contemporaneo, lo fa risultare un autore moderno nonostante la sua data di nascita risalga a più di due secoli fa.