domenica 22 febbraio 2015

“La dama e l’unicorno” di Tracy Chevalier

LA DAMA E L’UNICORNO
di Tracy Chevalier
BEAT
(edizione originale Neri Pozza)
Parigi 1490, Jean Le Viste ha deciso di commissionare a Nicolas des Innocentes la decorazione del salone della sua casa in Saint-Germain-des-Près.

Jean Le Viste è un uomo influente e ricco, non avvezzo agli scherzi, caparbio e prudente, un uomo che non ammette di essere contraddetto, che pretende che tutti facciano come dice e che lo facciano immediatamente.

Nicolas des Innocentes è un pittore che vanta una certa reputazione a corte come miniaturista, è solito dipingere piccoli ritratti che le dame regalano ai loro ammiratori.
Per arrotondare le proprie entrate però non disdegna di dipingere anche stemmi e decorare gli sportelli delle carrozze.

Jean Le Viste questa volta ha deciso di commissionargli qualcosa di diverso, il pittore dovrà creare i disegni per la Grande Salle, un ambiente lungo più di dieci passi e largo cinque, che saranno poi trasformati in arazzi di dimensioni tali che gli artigiani impiegheranno anni per tesserli.

Nicolas des Innocentes nonostante il timore per quanto richiestogli, non può certo permettersi di rifiutare una commessa così importante.

Jean Le Viste vuole che gli arazzi rappresentino la battaglia di Nancy, ma dopo aver incontrato Claude, la figlia maggiore del committente e sopratutto in seguito agli ordini tassativi ricevuti dalla moglie di Jean Le Viste, Geneviève de Nanterre, Nicolas accetta di cambiare il soggetto, convincendo lo stesso committente della bontà della nuova proposta.

A mon seul désir

Gli arazzi rappresenteranno la storia di una dama e del suo desiderio di sedurre un unicorno.

L’opera vede la sua realizzazione nella bottega artigiana del lissier George de la Chapelle a Bruxelles, bottega nella quale facciamo conoscenza degli altri protagonisti della storia: la moglie di George, Christine du Sablon, i loro figli George Le Jeune e Aliénor, il cartonista Philippe de Tour oltre a diversi personaggi minori che completano l’affresco creato dalla sapiente penna dell’autrice.

La vista
Ogni personaggio, capitolo dopo un capitolo, racconta in prima persona la propria parte di storia, una storia che si dipana tra Parigi e Bruxelles negli anni che vanno dal 1490 al 1492 e nella quale si intrecciano le vite dei vari protagonisti, tra l’ossessione di Nicolas per Claude e la vita nella bottega di George.

Qualche accenno all’opera descritta nel romanzo è però necessaria. Per prima cosa va detto che non si sa chi sia l’autore né chi realizzò materialmente gli arazzi del ciclo “La dama e l’unicorno”.
Il gusto
Non si conosce neppure il nome del membro della famiglia Le Viste che commissionò l’opera, ma per le tecniche di tessitura e per la tipologia degli abiti rappresentati, si propende per datare gli arazzi alla fine del XV secolo, pertanto diventa abbastanza plausibile riconoscere nel committente il nome di Jean Le Viste.
Inoltre la tecnica del millefleurs (o millefiori) indicherebbe il Nord Europa e più precisamente le botteghe di Bruxelles come il più probabile dei luoghi per la loro realizzazione.

Il tatto
Gli arazzi non rimasero di proprietà dei Le Viste per molti anni, infatti, alla morte di Claude la proprietà passò agli eredi del suo secondo marito.
Nel 1660 facevano bella mostra appesi alle pareti di un castello a Boussac, dove furono scoperti nel 1841 da Prosper Mérimé piuttosto mal ridotti.
Nel 1882 furono acquistati dal governo francese per essere esposti nel Museo di Cluny a Parigi dove sono ancor oggi esposti perfettamente restaurati.



Il ciclo di arazzi, realizzati in lana e seta, è composto da sei pannelli al centro di ognuno dei quali sono rappresentati la dama e l’unicorno.

L'olfatto
Cinque pannelli sono dedicati ai cinque sensi (il gusto, l’udito, la vista, l’olfatto e il tatto); il sesto pannello invece più grande degli altri e differente per stile, riporta in altro la scritta A mon seul désir e risulta di più difficile interpretazione.

Tracy Chevalier in questo romanzo, come in tutti i suoi libri, riesce a trasportare il lettore in un’epoca lontana grazie alla creazione di personaggi perfettamente descritti e, attraverso una scrittura piacevole e scorrevole, riesce ad affascinarlo con la storia dell’arte tessile degli arazzi.

L'udito
Il lettore non può che rimanere rapito e ammaliato davanti alla dettagliata e minuziosa descrizione di come nasceva questo tipo di opera d’arte; un manufatto dalla funzione a metà tra quella decorativa e quella più utile seppur prosaica di rendere l’ambiente più caldo e accogliente nelle fredde giornate invernali. 

Tracy Chevalier in “La dama e l’unicorno” ci racconta la storia, ovviamente di fantasia, di una delle opere più misteriose della storia dell’arte e lo fa con la bravura e con la grande competenza storica che la contraddistinguono, intessendo una trama che ci parla di amori impossibili, di seduzione, di lavoro, di fatica e di arte.

Se amate lo stile di Tracy Chevalier e i suoi romanzi, se avete apprezzato in modo particolare “La ragazza con l’orecchino di perla”, non potrete non rimanere conquistati dal fascino della storia narrata ne “La dama e l’unicorno”.



Potrebbero interessarvi anche:

                      



giovedì 19 febbraio 2015

“E le stelle non stanno a guardare” di Loredana Limone

E LE STELLE NON STANNO A GUARDARE
di Loredana Limone
SALANI
Borgo Propizio esercitava una malia arcana, che forse si sprigionava dall’aria resa trasparente dalla brezza di pendio, o che sgattaiolava dal grigio delle pietre immortali delle case, dalle ambagi delle viuzze senza tempo. O addirittura dai fugaci movimenti delle tendine di pizzo bianco, inamidate, dietro cui occhi attenti scrutavano fuori, menti scaltre congetturavano sui perché e i percome, parole appassionate rimbalzavano di bocca in bocca con i necessari ricami, così che ogni fatto, ogni avvenimento, divenisse uno sceneggiato o una spy story.

Borgo Propizio è un piccolo paese medievale che sorge su una collina, un luogo quasi fuori dal tempo, un piccolo centro appena tornato alla vita dopo un lungo periodo di decadenza.

L’antico paese all’interno delle mura è stato da poco restaurato mentre alle pendici della collina è stata invece costruita la parte moderna dell’abitato seguendo i dettami della ecosostenibilità e costruendo perciò solo case ecologiche nel totale rispetto della natura e del passato.
L’amore dei borghigiani per la loro terra e l’avvedutezza del sindaco, tale Felice Rondinella, sono riusciti così a riportare l’antico borgo ai fasti di un tempo.

Proprio nell’ottica di renderlo un luogo sempre più vivibile, oltre al celebre museo medievale localizzato nel Castelluccio che attira moltissimi turisti da ogni dove, presto verrà aperta anche una biblioteca.
La storia del romanzo prende avvio proprio dai preparativi in corso per l’inaugurazione di quest’ultima. L’assessore alla cultura ha stabilito, infatti, che per celebrare degnamente l’avvenimento, la cerimonia del taglio del nastro dovrà essere inserita all’interno di altri eventi culturali, un festival al quale parteciperanno diversi scrittori tra cui il più famoso di tutti, Rocco Rubino, un acclamato e affascinante autore di gialli.

Il titolo della manifestazione non potrebbe essere più indovinato: “Festival sotto le stelle propizie”.

I personaggi del romanzo sono tantissimi ed è quasi impossibile citarli tutti.
C’è Belinda, una giovane un po’ acidella, che ha deciso di ritornare al paese e aprire qui una bellissima e fiabesca latteria “Fatti mandare dalla mamma” con zia Letizia, grande appassionata del G.M. o Gran Musicante che altri non è che il famoso Gianni Morandi.
La latteria è un luogo splendido, un angolo di paradiso bianco e blu con le piastrelle decorate da mucche e cornicette, dove nuvole bianche si stagliano su uno sfondo celeste. Un luogo accogliente che funge anche da ritrovo culturale per gli abitanti del borgo.

Ci sono poi le due sorelle Mariolina e Marietta.
Mariolina è sposata con Ruggero, di dieci anni più giovane, gran lavoratore e innamoratissimo della moglie. Per la disperazione della consorte però, che fa della cultura un suo punto di forza, lui non azzecca mai un congiuntivo!
Mariolina è perennemente insoddisfatta, sempre alla ricerca di qualcosa che non sa neppure lei cosa sia.
Marietta, invece, nonostante sembri ad una prima lettura un po’ la classica zitella scorbutica, alla fine non può non suscitare la simpatia del lettore.
Il suo essere acida è solo apparenza perché in realtà a 47 anni sogna ancora di trovare il grande amore. Anche lei come Ruggero è una lavoratrice instancabile ed ha da poco rilevato la metà di uno storico negozio di Borgo Propizio ovvero “Fili Fatati dal 1888”.

Ma attorno a loro ruotano tanti altri personaggi il sindaco Felice Rondinella, l’assessore alla cultura Tranquillo Conforti, Ornella, ritornata al paese dopo un matrimonio fallito con un celebre chirurgo, che ora vive con la madre e lavora come organizzatrice di eventi culturali per il comune.

Un giorno poi giunge in paese Antonia, ex moglie di un collega dell’ex marito di Ornella, e da qui i pettegolezzi sulla forestiera dai boccoli ramati si scatenano senza sosta come in ogni paesino che si rispetti… Ma cosa nasconde Antonia?

I personaggi sono davvero numerosissimi: alcuni di essi erano già stati presentati dall’autrice nel primo libro “Borgo Propizio” altri invece sono delle vere e proprie new entry.

“E le stelle non stanno a guardare”, il cui titolo schiaccia chiaramente l’occhio al celebre romanzo di A.J. Cronin (E le stelle stanno a guardare) e con il quale non ha però nulla in comune, è il secondo volume di quella che inizialmente doveva essere una trilogia.
Dico “doveva” essere perché mi sembra di aver capito che Loredana Limone abbia già iniziato a buttare giù qualche idea per una possibile quarta puntata della storia del borgo.

Il primo volume intitolato “Borgo Propizio” uscito per Guanda e poi in edizione economica per Tea, raccontava la storia del borgo quando ancora fatiscente lottava per la propria sopravvivenza e per quella dei suoi abitanti ormai ridotti a poche unità.
Il secondo volume “E le stesse non stanno a guardare” è invece edito da Salani e a breve vedrà la stampa il terzo capitolo dal titolo “Un terremoto a Borgo Propizio”.

Niente paura però, le storie di Borgo Propizio sono storie godibilissime anche se lette singolarmente. Personalmente non ho letto il primo volume, e a parte la curiosità ormai scatenata dai personaggi, non ho trovato alcuna difficoltà ad addentrarmi nelle vie del borgo anche non conoscendo l’antefatto della storia.

Che dire di questo romanzo? È un libro che incatena il lettore non con la suspense o con l’ansia, ma con la sua leggerezza, con la simpatia che suscitano i protagonisti, insomma un libro rilassante e che fa sorridere.

I personaggi della storia sono veri perché calati nella vita reale anche se magari alcuni aspetti caratteriali sono po’ esasperati, ma è giusto che sia così perché il tutto fa parte del fascino fantastico della storia.
La realtà della vita di tutti i giorni la ritroviamo ad esempio nella smodata passione che zia Letizia nutre per Gianni Morandi o nel desiderio di Marietta di partecipare ad una trasmissione in tv come “Incontro in giardino” che non può non richiamare alla mente del lettore la celebre trasmissione “Uomini e Donne”. E poi chi non è stata mai sedotta ed abbandonata dal Rocco Rubino di turno?

Borgo Propizio è il rifugio che ognuno di noi vorrebbe trovare, un luogo ai confini della realtà nel quale rifugiarsi, lontano dallo stress, dai ritmi frenetici, dalla corsa contro il tempo che ognuno di noi è costretto ad affrontare ogni giorno.
Chi non vorrebbe trovare un luogo come la latteria di Belinda dove potersi nascondere per bere una latte caldo, per magiare un gelato latteciocco o frago-latte oppure solo per poter spettegolare un po’ tra amiche?

“E le stelle non stanno a guardare” è un ottimo antidoto contro lo stress, una lettura da concedersi quando ci si vuole coccolare un po’ e magari provare a sorridere del pazzo mondo che ci circonda. 





martedì 10 febbraio 2015

“La principessa di Clèves” di Madame de La Fayette

LA PRINCIPESSA DI CLÈVES
di Madame de La Fayette
NERI POZZA
Riconosciuto come il primo romanzo psicologico moderno, “La principessa di Clèves” venne pubblicato in Francia nel 1678.
Considerato il primo vero classico della letteratura francese è ancora oggi uno tra i principali testi in programma nei licei e nelle università d’oltralpe.

Marie-Madeleine Pioche de la Vergne, conosciuta come Madame de La Fayette dal nome del marito, nacque a Parigi nel 1634.
Fu autrice di diverse opere, spesso pubblicate con uno pseudonimo. Nell'epoca in cui ella visse, infatti, era considerato sconveniente per donna dedicarsi alla scrittura, figuriamoci quindi per una dama del suo rango.
La sua opera più conosciuta“La principessa di Clèves”, ottenne fin da subito un notevole successo.

La vicenda è ambientata nel XVI secolo alla corte di Francia, quella stessa corte nella quale un secolo dopo si muove proprio la sua stessa autrice.

Madame de La Fayette, infatti, racconta usi e costumi, regole di comportamento e bienséances tipici di un ambiente nel quale lei stessa, moglie di un conte e dama di corte di Enrichetta d’Inghilterra, vive ed agisce.

Questo l’incipit del romanzo.

La magnificenza e la galanteria non si sono mai manifestati in Francia con tanto splendore come negli ultimi anni del regno di Enrico II.

Un giorno alla corte di Enrico II e Caterina de’ Medici fa il suo ingresso una giovane ereditiera. Mlle de Chartres è bellissima, virtuosa e modesta. Ad appena sedici anni ha già ricevuto numerose proposte di matrimonio.

Mlle de Chartres, consigliata dalla madre, accetta tra i tanti pretendenti la proposta di matrimonio del principe di Clèves, un giovane bello, saggio e virtuoso.
I sentimenti di Mme de Clèves per il marito però, con grande dispiacere dello stesso, non andranno mai oltre la stima e la riconoscenza.

Un giorno a corte la principessa farà la conoscenza del duca di Nemours e se innamorerà perdutamente, da questi ricambiata.

Nessuna donna è in grado di resistere al fascino del duca di Nemour, l’uomo più avvenente e seducente del mondo, davvero un capolavoro della natura, così come è impossibile per ogni uomo non farsi conquistare dall’avvenenza della principessa di Clèves.

Mme de Clèves è sì una giovane bellissima, ma è soprattutto una donna virtuosa. 
Proprio per questo aspetto del suo carattere non riesce a darsi pace di ciò che prova per un uomo che non è suo marito. 
Schiacciata dai sensi di colpa decide quindi di confessare al consorte i sentimenti per l’altro, implorando il suo aiuto per riuscire a resistere alla sempre più forte tentazione.

Il gesto che la principessa compie è qualcosa di estremo ed unico nel suo genere in una corte dove:

L’ambizione e la galanteria erano l’anima stessa della corte e occupavano le menti sia degli uomini che delle donne.
Erano tanti gli interessi in gioco e tanti gli intrighi, e così grande era la parte che vi prendevano le dame che l’amore era sempre intrecciato alla politica, e la politica all’amore.

Mme de Clèves è diversa da tutte le altre donne e per questo anche il finale del libro e la scelta per la quale opterà la protagonista sono incomprensibili agli occhi di un lettore moderno così come a quelli dei suoi contemporanei, ma perfettamente in sintonia al personaggio creato dalla penna di Madame de La Fayette.

Non voglio anticiparvi nulla del finale, anzi colgo l’occasione per consigliarvi di leggere l’interessante prefazione di Isabella Mattazzi solo al termine della lettura del romanzo se non volete conoscere in anticipo l’epilogo della storia.

Madame de La Fayette sa indagare e scavare a fondo nella psicologia dei personaggi, fornendoci descrizioni dettagliate dei sentimenti contrastanti che essi provano, delle paure e dei tormenti che li assalgono.

Bellissime le pagine in cui Mme de Clèves si confessa al marito ed ancora più intense ed emozionanti quelle in cui ella apre il suo cuore all’uomo di cui è perdutamente innamorata.

“La principessa di Clèves” è un breve romanzo (208 pagine) che, pur presentando una trama all’apparenza piuttosto povera, pone invece grandi interrogativi psicologici, esistenziali e morali.
Inoltre, grazie ad uno stile sobrio ed ad una scrittura elegante e raffinata, è un libro assai piacevole da leggere, decisamente un classico senza tempo da non “perdere”.




martedì 3 febbraio 2015

“I tre giorni di Pompei” di Alberto Angela

I TRE GIORNI DI POMPEI
di Alberto Angela
RIZZOLI
23-25 ottobre 79 d.C.: ora per ora la più grande tragedia dell’antichità

Sono le ore 13 del 24 ottobre e quello che sembrava un comune venerdì, si rivelerà essere invece il giorno di una tragedia di immani proporzioni.

Dal Vesuvius si sprigionerà, infatti, una quantità di energia pari a quella di cinque bombe atomiche e in meno di un giorno Pompei verrà sommersa da un diluvio di ceneri e gas.
Il crollo dei soffitti causato dall’imponente accumulo di pomici e dalle continue scosse sismiche causeranno numerosissimi decessi tra i Pompeiani.
Chi sopravviverà ai crolli non riuscirà comunque a trovare scampo da una morte che sopraggiungerà per soffocamento e per le ustioni causate dalle ceneri.

La vicina Ercolano resterà sepolta sotto metri e metri di fanghi compatti e lava.

Stessa drammatica sorte subiranno le campagne circostanti e le cittadine minori Terzigno, Oplontis, Murecine, Boscoreale, Stabia: ognuno di questi luoghi vivrà la sua personale tragedia.

Il mare impraticabile, le forti burrasche e l’attività vulcanica, impediranno ogni tipo di soccorso e Pompeiani, Ercolanesi…tutti saranno abbandonati al loro triste destino.

Pompei è stata colpita da una serie di catastrofi come raramente è avvenuto nella storia: terremoti, maremoti, piogge di pomici e rocce, valanghe roventi, torrenti di fango, gas irritanti, ceneri asfissianti…La vera “tempesta perfetta”.

E’ vero la storia di Pompei e di Ercolano, della grande eruzione del Vesuvius la conosciamo tutti, sin dalle elementari viene raccontata ad ogni alunno, allora perché scegliere di leggere un libro proprio sugli ultimi giorni di Pompei?
Perché ci sono tantissimi particolari interessanti che ancora ignoriamo e altrettanti elementi che magari abbiamo semplicemente rimosso nel corso degli anni.

Per esempio quanti di voi sanno che in realtà quello che distrusse Pompei, Ercolano e tutte le altre località circostanti non fu il Vesuvio che noi tutti conosciamo?
Il Vesuvio che vediamo oggi in realtà iniziò a crescere esattamente al centro del cratere del monte Somma (o Vesuvius nei testi antichi), il vero killer del 79 d.C.
L’immagine del Vesuvio della tipica “cartolina da Napoli” ha impiegato secoli a raggiungere l’attuale altezza tanto che nei dipinti medievali le sue dimensioni apparivano decisamente ridotte.

E’ vero che gli abitanti della zona di Pompei ed Ercolano, solo per citare le due cittadine più famose, ignorarono per anni gli avvertimenti che il vulcano inviava loro: dai terremoti sempre più frequenti e distruttivi sino a giungere a segnali molto più evidenti nelle ore precedenti l’eruzione, ma va detto a loro favore che, oltre a non essere in possesso delle moderne tecnologie di cui noi oggi disponiamo, l’aspetto del Vesuvius non era per nulla terrificante, non c’era ad esempio nessun cono come quello attuale ad indicare la presenza di un vulcano.
Il territorio si presentava come un monte lungo e basso, piuttosto pianeggiante al centro e con qualche rilievo ai margini.
  
Sappiamo per certo che qualche abitante riuscì a mettersi in salvo. Nella maggior parte dei casi non ne conosciamo i nomi e in qualche caso possiamo azzardarne invece anche l’identità. Tra i possibili superstiti c’è una certa Rectina, una ricca matrona, che sembrava poter vantare una certa familiarità con Plinio il Vecchio, l’ammiraglio della flotta di stanza a Miseno, famoso naturalista nonché zio di Plinio il Giovane, una delle nostre maggiori fonti della tragedia proprio perché egli stesso la visse in prima persona.

Ciò che affascina ne “I tre giorni di Pompei” è la capacità di Alberto Angela di riuscire a raccontare la storia come fosse un romanzo grazie anche a ricostruzioni verosimili di ciò che accadde nelle ore precedenti la tragedia e durante la tragedia stessa.
Senza tralasciare di raccontarci la vera storia dell’area vesuviana inquadrandola magistralmente nel più ampio quadro della storia romana, senza mancare di snocciolare dati scientifici e di illustrarci gli scavi e i ritrovamenti archeologici, Alberto Angela è riuscito a mantenere per ben 463 pagine un ritmo incalzante, regalandoci così una lettura piacevole il cui stile sembra molto più vicino a quello di un romanzo piuttosto che a quello di un saggio.
Mano a mano che ci si avvicina all’ora zero, l’ora dell’eruzione, l’ansia del lettore cresce e così la sua partecipazione quasi fosse egli stesso in prima persona ad essere trasportato dalla folla, colto dallo stesso panico che colse quasi certamente gli abitanti dell’area vesuviana.
Un’empatia che cresce pagina dopo pagina e che induce il lettore a chiedersi cosa avrebbe fatto e come avrebbe reagito se si fosse trovato davvero in prima persona a vivere quei terribili momenti.

Apprezzabili sono la sensibilità ed il profondo rispetto con cui Angela ci racconta gli ultimi istanti di una tragedia che fece migliaia di vittime, persone che morirono in una delle catastrofi più grandi che la storia conosca.
Ho gradito particolarmente il fatto che egli parli di esseri umani e non semplicemente di calchi umani, perché è giusto non dimenticare mai che quelle immagini di vittime giunte sino ai nostri giorni sono state “persone vere” e pertanto richiedono rispetto e dignità.

La storia spesso ci parla di guerre, di battaglie e di grandi eventi senza umanità, senza fare cenno a quanto questo sia costato in termini di vite umane, senza rispetto per i morti; la letteratura al contrario ci mostra il lato umano delle tragedie.
Quando leggete un libro di storia e leggete per esempio della peste, il racconto rimane freddo, lucido come se i morti non fossero persone, ma un semplice dato, un numero.
Pensate ora quanta differenza leggendo ad esempio i Promessi Sposi ed in particolare il racconto della madre di Cecilia che depone la figlia sul carro, pensate al pathos di quelle pagine.
“I tre giorni di Pompei” pur essendo a tutti gli effetti un’opera divulgativa, riesce grazie alla grande capacità espositiva del suo autore, a mantenere vive la pietas e l’umanità nel lettore nei confronti di esseri umani vissuti duemila anni fa.

Perché leggere questo libro? Un valido motivo potrebbe essere più o meno lo stesso che ha spinto l’autore a scriverlo ovvero tirare le fila di tutto il sapere acquisito in più di venti anni di riprese televisive e visite dell’area vesuviana.
“I tre giorni di Pompei” è un validissimo aiuto per fare il punto di tutte le proprie conoscenze sull’argomento.
Ho scoperto con piacere che c’erano molti elementi di cui non sapevo nulla. Che l’eruzione abbia avuto luogo nel 79 d.C, ad esempio, è notizia certa, ma io ignoravo il fatto che ci fossero dei dubbi sul mese dell’avvenimento ovvero che ci fossero due ipotesi di datazione: il 24 giugno e il 24 ottobre.
La tesi che l’eruzione sia avvenuta in autunno piuttosto che in estate è quella più attendibile secondo Angela che ha scelto di dedicare alla controversa questione l’intera appendice alla fine del libro esponendo gli elementi a favore e contro ciascuna datazione.

“I tre giorni di Pompei” demolisce quell’immagine che spesso film e letteratura ci hanno imposto presentandoci i Pompeiani sorpresi dall’eruzione mentre erano impegnati in banchetti o mentre si rilassavano alle terme.
Nulla di più sbagliato, Pompei era in piena emergenza. 
Quasi tutte le case avevano lavori in corso, alcune erano state abbandonate dopo il terremoto del 62 d.C. ed erano disabitate da anni, inoltre c’erano cantieri aperti un po’ ovunque.
A causa poi dell’attività sismica intensificatasi negli ultimi giorni, nelle ore prima dell’eruzione a Pompei mancava l’acqua mentre maleodoranti esalazioni sulfuree salivano dal terreno nelle zone circostanti.

Il libro di Alberto Angela è affascinante, esaustivo ed avvincente, ma se tutte queste qualità da sole non dovessero essere sufficienti per spingervi alla lettura, vi ricordo che acquistando “I tre giorni di Pompei” contribuirete al restauro di un importante affresco ovvero "Adone ferito" che si trova proprio a Pompei nell'omonima casa.