sabato 31 marzo 2012

"Ultime lettere di Jacopo Ortis” di Ugo Foscolo


Ugo Foscolo (1778 - 1827)

L’idea del romanzo risale al 1796 e la pubblicazione della prima versione con il titolo “Laura, lettere” inizia nel 1798. Nel 1799 Foscolo sconfessa però questa prima stampa e la prima edizione completa vedrà la luce nel 1802, anch’essa in seguito lungamente rivista ed aggiornata nelle versioni successive del 1816 e del 1817.
Considerato il primo romanzo epistolare della letteratura italiana, l’opera ebbe come modelli la “Nuova Eloisa” di Rosseau e “I dolori del giovane Werther” di Goethe.
La vicenda trae origine da un fatto realmente accaduto (il suicidio di uno studente universitario, Girolamo Ortis) poi rielaborato sulla base delle esperienze biografiche del Foscolo: i suoi innamoramenti, le sue crisi politiche ed esistenziali, le peregrinazioni attraverso l’Italia contesa e tradita dagli stranieri.

Jacopo Ortis, un giovane intellettuale veneto, costretto dopo il trattato di Campoformio (1797) a fuggire da Venezia, scrive dall’esilio le sue dolorose vicende all’amico Lorenzo Alderani, l’immaginario “editore” delle sue lettere postume.
Jacopo si rifugia sui Colli Euganei dove conosce un altro esule, il signor T***, e si innamora, ricambiato, della figlia di quest’ultimo, Teresa.

L’ho veduta ,o Lorenzo, la Divina Fanciulla

Non sono felice! Mi disse Teresa; e con questa parola mi strappò il cuore.
(…) Non sono felice! Io aveva concepito tutto il terribile significato di queste parole, e gemeva dentro l’anima, veggendomi innanzi la vittima che doveva sacrificarsi a’ pregiudizi ed all’interesse.

La ragazza è però già promessa sposa ad Odoardo, un giovane onesto e ricco ma privo di ogni slancio emotivo.

Buono – esatto – paziente! E nient’altro? Possedesse queste doti con angelica perfezione, s’egli avrà cuore sempre così morto, e quella faccia magistrale non animata mai né dal sorriso dell’allegria, né dal dolce silenzio della pietà, sarà per me uno di que’ rosaj senza fiori che mi fanno temere le spine. Cos’è l’uomo se tu lo abbandoni alla sola ragione fredda, calcolatrice?

Odoardo sa di musica; giuoca bene a scacchi; mangia, legge, dorme, passeggia, e tutto con l’oriuolo alla mano.

C. D. Friedrich
 Un uomo e una donna che guardano la luna 
1824, Berlino, Nationalgalerie 
Quello tra Jacopo e Teresa è un amore lacerante, emotivamente irrazionale, intenso e romantico, ma nonostante il forte sentimento che li unisce, il loro è un amore impossibile.
Il padre di Teresa non può accettare quest’unione, nonostante stimi molto Jacopo e lo ritenga un ragazzo colto, intelligente, capace di grandi passioni, deve tener conto che l’esistenza di quest’ultimo è un’esistenza inerte fatta di dubbi sociali ed esistenziali.
Le persecuzioni della polizia austriaca e le pressioni continue del signor T*** costringono Jacopo a partire ed ad allontanarsi così dalla donna amata, unico conforto per la sua disperazione politica.
Ortis inizia a viaggiare senza meta per tutta l’Italia: Bologna, Firenze, Roma, Milano, Genova... ovunque vede la tragedia dell’oppressione straniera e non riesce a trovare alcuna consolazione.

(…) e il domani viene, ed eccomi di città in città, e mi pesa sempre più questo stato di esilio e di solitudine.

Così noi tutti Italiani siamo fuoriusciti e stranieri in Italia: e lontani appena dal nostro territoriuccio, né ingegno, né fama, né illibati costumi ci sono di scudo: e guai se t’attenti di mostrare un dramma di sublime coraggio! (…) Spogliati dagli uni, scherniti dagli altri, traditi sempre da tutti, abbandonati da’ nostri medesimi concittadini, i quali anziché compiangersi e soccorrersi nella comune calamità, guardano come barbari tutti quegl’Italiani che non sono della loro provincia, e dalle cui membra non suonano le stesse catene.

Quando apprende la notizia del matrimonio di Teresa con Odoardo, decide di tornare in Veneto per rivederla un’ultima volta.
Jacopo, recandosi a casa del signor T***, lo incontra mentre passeggia con la figlia e il genero ma i saluti sono freddi e distaccati.
Ormai deluso dall’amore, dalla vita, dalla politica e dai suoi compatrioti si uccide pugnalandosi al petto e trovando così la liberazione nell’unico modo ormai per lui possibile.

Lo seppi: Teresa è maritata. Tu taci per non darmi la vera ferita – ma l’infermo geme quando la morte il combatte, ma non quando lo ha vinto.

Veggo la meta: ho già tutto fermo da gran tempo nel cuore – il modo, il luogo – né il giorno è lontano.
Cos’è la vita per me? il tempo mi divorò i momenti felici: io non la conosco se non nel sentimento del dolore: ed or anche l’illusione mi abbandona – medito sul passato; m’affiso su i dì che verranno; e non veggo che nulla.

Pentimenti sul passato, noja del presente, e timor del futuro; ecco la vita: La sola morte, a cui è commesso il sacro cangiamento delle cose, promette pace.

Ultime lettere di Jacopo Ortis
(Mondadori , 2010 Cles TN)
Non c’è uno sviluppo avvincente nello svolgersi del romanzo, la vera sostanza del racconto sono le riflessioni del protagonista, alter ego del Foscolo, ed una compiaciuta autocommiserazione, tratto tipico del romanticismo.
“Ultime lettere di Jacopo Ortis” è un libro per appassionati di letteratura romantica, per idealisti sensibili e per utopisti.
Non si può che rimanere sorpresi davanti alla triste attualità di alcune meditazioni del Foscolo:
                           
Questa università è per lo più composta di professori orgogliosi e nemici fra loro, e di scolari dissipatissimi. Sai tu perché fra la turba de’ dotti gli uomini sommi sono così rari?

Nella società si legge molto, non si medita e si copia; parlando sempre si svapora quella bile generosa che fa sentire, pensare, e scrivere fortemente: per balbettar molte lingue, balbetta anche la propria, ridicoli a un tempo agli stranieri e a noi stessi:dipendenti dagl’interessi, dai pregiudizi, e dai vizj degli uomini fra’ quali si vive, e guidati da una catena di doveri e di bisogni, si commette alla moltitudine la nostra gloria, e la nostra felicità: si palpa la ricchezza e la possanza, e si paventa perfino di essere grandi perché la fama aizza i persecutori, l’altezza di animo fa sospettare i governi; e i principi vogliono gli uomini tali da non riuscire né eroi, né incliti scellerati mai.

venerdì 23 marzo 2012

"La sovrana lettrice" di Alan Bennett


"La sovrana lettrice", Alan Bennett
Adelphi (2007- Cusano MI)
“La sovrana lettrice” (titolo originale “The Uncommon Reader”) è un racconto di circa un centinaio di pagine ironico e piacevole.
Alan Bennett, con il suo consueto stile brioso e conciso, ci regala un romanzo brillante e originale; un libro davvero godile e divertente.

Fu tutta colpa dei cani. Di norma, dopo aver scorazzato in giardino salivano da veri snob i gradini dell’ingresso principale, e generalmente li faceva entrare un valletto in livrea.
E invece quel giorno, per qualche ragione, si precipitarono di nuovo giù dai gradini, girarono l’angolo e la regina li sentì abbaiare a squarciagola in uno dei cortili.
La biblioteca circolante del distretto di Westminster, un grande furgone come quelli dei traslochi, era parcheggiata davanti alle cucine.

Da qui prende via il racconto che vede come protagonista Elisabetta II d’Inghilterra nei panni della “sovrana lettrice” la quale, del tutto casualmente, scopre il piacere della lettura. Piacere che diventa ben presto un’ossessione ed il tempo trascorso senza leggere diventa irrimediabilmente perso. Assistiamo così a tutta una serie di scene esilaranti nelle quali Elisabetta cerca di nascondere il vizio della lettura, affinando la sua abilità a parlare in pubblico o a salutare la folla mentre i suoi occhi cadono sulla pagina del libro.
Il rapporto con la lettura diviene talmente travolgente ed incontrollabile che per la regina diventa sempre più difficile mantenere un equilibrio tra questa passione e gli impegni ufficiali, mentre l’intera corte è gettata nello scompiglio e la nazione inizia a preoccuparsi.

Certamente, –  disse  la regina – ma ragguagliare non è leggere. Anzi, è l’esatto contrario. Il raggiungimento è succinto, concreto e pertinente. La lettura è disordinata, dispersiva e sempre invitante. Il ragguaglio esaurisce la questione, la lettura la apre.

Passare il tempo? – esclamò la regina. I libri non sono un passatempo. Parlano di altre vite. Di altri mondi.

Un libro è un ordigno per infiammare l’immaginazione.

Ad un certo punto però la situazione precipita, Elisabetta si rende conto che leggere e prendere appunti non è più sufficiente.

Leggere non avrebbe cambiato le cose… Scrivere magari sì.
Dovendo rispondere alla domanda se la lettura le avesse arricchito la vita, avrebbe risposto di sì, salvo aggiungere con altrettanta certezza che l’aveva vuotata di qualsiasi scopo. In passato era stata una donna risoluta che conosceva i suoi doveri e intendeva compierli fin quando possibile. Adesso si sentiva troppo spesso scissa in due. Leggere non era agire, quello era il problema. Anche a ottant’anni, lei era una donna d’azione.
Riaccese la luce, prese il taccuino e annotò: “Non si mette la vita nei libri. La si trova”.

Dopo le innumerevoli letture confuse e disordinate Elisabetta alla fine raggiungerà una più profonda conoscenza di sé e, fatto un bilancio della sua vita, arriverà a compiere un gesto estremo ed inaspettato.

A volte mi sono sentita come una candela mangiafumo mandata qua è là per profumare delle dittature: al giorno d’oggi la monarchia è solo un deodorante governativo.
Io sono la regina d’Inghilterra, ma negli ultimi cinquant’anni me ne sono vergognata spesso.

Consiglio questo racconto a tutti coloro che amano leggere, a coloro ai quali piace l’odore delle vecchie pagine ingiallite così come quello delle pagine fresche di stampa, a tutte quelle persone che quando arrivano all’ultima pagina di un buon libro si sentono perse e smarrite come se avessero perso un amico…

sabato 17 marzo 2012

“Una storia tra due città” di Charles Dickens


Charles Dickens (1812 – 1870) scrisse soltanto due romanzi storici “Barnaby Rudge” (1841) e “A Tale of Two Cities” pubblicato a puntate nel 1859.
Ambientato tra Parigi e Londra nel burrascoso periodo che va dagli anni immediatamente precedenti alla rivoluzione francese ed il regno del Terrore, “Una storia tra due città” narra le vicende private di un gruppo di persone attraverso un susseguirsi di colpi di scena.
Sebbene l’ambientazione differisca notevolmente dall’Inghilterra vittoriana tipica dei romanzi di Dickens, questo romanzo contiene tutti i temi classici dell’opera dickensiana: la povertà, la nobiltà d'animo, il riscatto e il sacrificio.
L’incipit del romanzo chiarisce immediatamente il collegamento tra il passato che sta per essere raccontato ed il presente che viene vissuto:

Erano i giorni migliori, erano i giorni peggiori, era un’epoca di saggezza, era un’epoca di follia, era tempo di fede, era tempo di incredulità, era una stagione di luce, era una stagione buia, era la primavera della speranza, era l’inverno della disperazione, ogni futuro era di fronte a noi, e futuro non avevamo, diretti verso il paradiso, eravamo incamminati nella direzione opposta. A farla breve, era quello un tempo così simile al nostro che alcune fra le voci più autorevoli, quelle che più strillavano, insistevano a giudicarlo, nel bene e nel male, solamente per superlativi.

Dickens lancia attraverso il tempo passato, un monito al tempo presente in cui è ancora viva la minaccia della ripetizione dell’antico. Si deve, infatti, tener conto che nel 1859 (anno di pubblicazione del romanzo) è ancora ben vivo il ricordo dei tumulti e delle agitazioni dovute all’approvazione della Corn Law e quello dei moti rivoluzionari a seguito del movimento cartista, che con la sua richiesta di una radicale riforma elettorale, rievocava i fantasmi del Terrore francese.
Per Dickens la rivoluzione è una malattia, è febbre e delirio di autodistruzione il cui contagio si propaga a velocità spaventosa.
La società è continuamente minacciata a causa degli squilibri della distribuzione della ricchezza e la folla sottoposta a continui soprusi diventa facilmente crudele e incontrollabile:

a quel tempo la folla era un mostro molto temuto e che non si fermava davanti a nulla

Tra le molteplici vicende umane che si intrecciano in queste pagine spiccano quelle di Lucie Manette, donna virtuosa, che ispira amore e lealtà negli altri personaggi e quelle di suo padre, un medico ingiustamente incarcerato.
Il romanzo è soprattutto la storia del Dottor Alexandre Manette: la storia inizia, infatti, con il suo rilascio dalla Bastiglia e alla fine sarà proprio la lettura della sua lettera che, per un destino beffardo, decreterà la condanna a morte del genero Darnay, obbligando così Sydney Carton a sacrificare la propria vita.
Alexandre Manette, dottore di belle speranze in gioventù, è uno dei personaggi più complessi del racconto: da prigioniero che medita vendetta - attraverso un difficile percorso che alterna follia e lotta contro i propri fantasmi – riesce alla fine, per amore della figlia e della nipote, a mettere da parte l’odio e la rabbia e diventare egli stesso simbolo di perdono.
La tematica del “dualismo” si avverte in diversi personaggi: Lucie filo d’oro della vità di famiglia è contrapposta a Madame Defarge che lavora a maglia il filo dell’odio. Lucie, avrebbe le stesse ragioni di rancore di Madame Defarge, la cui famiglia è stata sterminata dall’arroganza e dalla prepotenza aristocratica, ma Lucie incarna la quintessenza dell’ideale femminile piccolo-borgese (dolcezza, amore e compassione). Madame Defarge, sanguinaria e vendicativa, è l’incarnazione di una femminilità sfigurata, è l’incarnazione della rivoluzione stessa e della perversione.
Il marito di Lucie, Charles Darnay (giustizia e senso del dovere), aristocratico francese espatriato in Inghilterra, indiscriminatamente accusato durante il Terrore, è il doppio di Sydney Carton, personaggio dalla vita dissoluta e dedito all’alcol. Carton riscatterà la sua apatica esistenza sacrificando la sua vita per amore di Lucie e della sua famiglia, diventando così un “eroe”.
Tema ricorrente è dunque anche quello della rinascita, della resurrezione: il Dottor Manette, Sydeny Carton e Darnay/Evrémonde sono tutti personaggi che sono stati “richiamati alla vita” anche se in modi diversi.
Lo stesso Jerry Cruncher, figura minore nell’economia del racconto, diviene forte simbolo di redenzione quando, pentendosi, rinuncerà al furto di cadaveri al quale era dedito riconciliandosi con la religione.
Considerato da Dickens stesso uno dei suoi romanzi più riusciti,  “A Tale of Two Cities” è un testo che appassiona fin dalla prima pagina per il suo mescolare verità storica e finzione.


Bibliografia
Dickens Charles, Una storia tra due città, Ed. Mondadori (2012 Cles -TN)
Mario Domenichelli, Introduzione in Dickens Charles, Una storia tra due città, Ed. Mondadori (2012 Cles -TN)




sabato 10 marzo 2012

A se stesso (Giacomo Leopardi)


Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, nè di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
L'ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l'infinita vanità del tutto.
(XXVIII, Canti)

 “A se stesso” chiude il gruppo di componimenti a cui appartiene il cosiddetto “ciclo di Aspasia” ispirato dalla passione intensa e non corrisposta da parte del poeta per Fanny Targioni Tozzetti, una nobildonna conosciuta durante un soggiorno a Firenze.
Le liriche appartenenti a questo ciclo sono tipiche della poesia anti-idilliaca dell’ultimo periodo della poetica leopardiana; in esse viene meno il tono elegiaco degli idilli suggerito dalla dolcezza dei ricordi e della giovinezza e si afferma un tono più energico, eroico e di ribellione. Il poeta raggiunge la consapevolezza della propria dignità morale che lo porta ad assumere coraggiosamente la propria condizione di uomo e contrapporla al mondo cieco e crudele della natura.

Il componimento rappresenta il congedo da ogni illusione e dalla vita stessa. L’ultima e disperata illusione di potersi aggrappare alla vita attraverso l’amore espressa da Leopardi nella lirica “Il pensiero dominante” è svanita per sempre. Il disinganno porta con sé il crollo dell’ultima speranza del poeta - Perì l'inganno estremo, Ch’eterno io mi credei - quella felicità in terra che per un istante l’amore appassionato per Fanny Targioni Tozzetti gli aveva fatto credere possibile.
Leopardi senza un attimo di commozione, attraverso un ritmo martellante e aspro, invita il suo cuore a non cedere mai più alle lusinghe dell’amore e procedendo con una brevità epigrafica, fatta di dichiarazioni nichilistiche - Amaro e noia La vitae fango è il mondo – gli chiede di rinunciare definitivamente ad ogni speranza poiché la natura, il potere malvagio e invisibile – a comun danno impera – mentre – l’infinita vanità del tutto – si allarga a dismisura.
“Vanitas vanitatum et omnia vanitas” (Ecclesiaste 1,2) è la locuzione a cui si richiama l’ultimo verso del componimento della lirica: ma mentre nell’Ecclesiaste l’invito è a disprezzare le cose terrene per volgere lo sguardo verso quelle divine, in Leopardi diventa espressione della consapevolezza della vanità delle illusioni che sono negate agli uomini dalla natura, per cui alla vita è preferibile il nulla eterno.

sabato 3 marzo 2012

Bright Star (John Keats)


Bright star! Would I were stedfast as thou art— 
Not in lone splendour hung aloft the night
And watching, with eternal lips apart,
Like nature's patient, sleepless Eremite,

The moving waters at their priestlike task
Of pure ablution round earth's human shores,
Or gazing on the new soft-fallen mask
Of snow upon the mountains and the moors—

No—yet still stedfast, still unchangeable,
Cheek-pillow'd on my fair Love's ripening breast,
To touch, for ever,  its wam sink and swell,
Awake for ever in a sweet unrest,

Still, still to hear her tender-taken breath,
And so live ever—or else swoon to death.


Fulgida stella, come tu lo sei
fermo foss'io, non in solingo
splendore alto sospeso nella notte
con rimosse le palpebre in eterno
a sorvegliare come paziente
ed insonne Romito di natura
le mobili acque in loro puro ufficio
sacerdotale di lavacro intorno
ai lidi umani della terra, oppure
guardar la molle maschera di neve
quando appena coprì monti e pianure.
No, - eppur sempre fermo, sempre senza
mutamento sul vago seno in fiore
dell'amor mio, come guanciale; sempre
sentirne il su e giù soave d'onda, sempre
desto in un dolce eccitamento
a udire sempre sempre il suo respiro
attenuato, e così viver sempre,
- o se no, venir meno nella morte.


La poesia fu scritta da John Keats per Fanny Brawne, la fulgida stella che lo aveva abbagliato, colei che lo aveva completamente “assorbito”.
In una lettera del 13 ottobre 1819 alla sua “dolce fanciulla” il poeta scriveva:
Il mio credo è Amore; e tu ne sei il dogma. Mi hai rapito grazie a un potere cui non posso resistere; eppure fui capace di resistere finché non ti vidi, e anche dopo averti vista mi sono sforzato spesso di “ragionare contro le ragioni del mio amore”. Ora non ne sono più capace. Il dolore sarebbe troppo grande. Il mio amore è egoista. Non posso respirare senza di te.
Il loro fu un amore impossibile, commovente e tormentato, casto ed appassionato, come nella letteratura lo furono gli amori altrettanto intensi e drammatici di personaggi quali “Romeo e Giulietta” e “Tristano e Isotta”.
John Keats morì giovanissimo all’età di 26 anni di tubercolosi, non ritornò mai in patria dall’Italia dove si era recato su consiglio dei medici e degli amici, sperando in una guarigione.
Morì a Roma nel 1821 dove tutt’oggi riposa. Non fece mai ritorno dalla sua Fanny per coronare il loro sogno di una radiosa vita insieme.



Consiglio di leggere, ovviamente oltre a tutte le opere di Keats, i seguenti due volumi:

“Bright Star. La via autentica di John Keats” di Elido Fazi ( Fazi Editore)
Il testo ripercorre proprio gli ultimi anni di vita del poeta caratterizzati dalle difficoltà economiche e dalle travagliate vicende familiari e sentimentali. E’ una lettura a più livelli, al tempo stesso un epistolario, un diario e un romanzo.








“Leggiadra stella. Lettere a Fanny Brawne” (ed. Archinto)
Come si evince dal titolo stesso del libro si tratta di una raccolta di lettere che il poeta scrisse  alla donna amata. Molto interessante la prefazione di Nadia Fusini.








Nel 2010 è stato distribuito in Italia il film "Bright Star" (2009) scritto e diretto da Jane Campion. Una storia delicata, basata sugli ultimi tre anni di vita di Keats. Visione naturalmente consigliata a tutti coloro che hanno un animo romantico e poetico...
Chi volesse vedere il trailer del film può cliccare qui