lunedì 24 dicembre 2012

Buon Natale con “The Christmas Books” di Charles Dickens


Natale è arrivato! Tanti auguri a tutti voi ed alle vostre famiglie! Che possa essere un giorno pieno di gioia e che porti armonia e pace nelle vostre vite e in quelle dei vostri cari…

Ho pensato che il modo migliore per farvi gli auguri fosse quello di ricordare insieme i famosi “Libri del Natale” (The Christmas Books) scritti da Charles Dickens tra il 1843 ed il 1848:

“Un canto di Natale” (The Christmas Carol)

“Le campane” (The chimes)

“Il patto con il fantasma” (The haunted man)

“La battaglia della vita” (The battle for life)

“Il grillo del focolare” (The cricket on the hearth)

Nelle pagine di questi brevi racconti, così suggestivi e talvolta surreali, Dickens ci racconta il Natale e la sua magia. In queste pagine scritte per un pubblico adulto così come per i più piccoli, lo scrittore ci invita a cercare la semplicità delle cose, suscitando in noi sentimenti di tolleranza verso il prossimo e facendoci volgere lo sguardo verso i più bisognosi, verso coloro che sono stati meno fortunati di noi. Dickens sa ricreare perfettamente l’atmosfera natalizia, quell’atmosfera di pace e serenità che si può ritrovare solo davanti al focolare domestico e nelle piccole ed umili azioni quotidiane.

Augurandovi ancora un sereno e lieto Natale, vi saluto con l’incipit di “Un canto di Natale”, forse il più famoso dei cinque racconti grazie anche alle sue numerose trasposizioni cinematografiche.

Marley era morto. Tanto per cominciare. Su questo non c’è alcun dubbio. Il certificato delle esequie era stato firmato dal pastore, dal segretario della parrocchia, dal becchino e da un parente. L’aveva firmato Scrooge. E in Borsa il nome Scrooge godeva gran credito, qualsiasi cosa decidesse di fare.
Il vecchi Marley era morto come un chiodo piantato in una porta.
Attenzione! Non intendo dire di sapere, per conoscenza personale, che cosa mai ci sia di particolarmente morto in un chiodo piantato in una porta. Per quanto mi riguarda, sarei stato propenso a credere che sia un chiodo piantato in una bara l’articolo di ferramenta più morto sul mercato. Ma la saggezza dei nostri antenati sta nella similitudine e le mie mani profane non debbono turbarla, o sarebbe la rovina del paese. Mi permetterete, dunque, di ripetere con enfasi che Merley era morto come un chiodo piantato in una porta.

domenica 16 dicembre 2012

“Zastrozzi” di Percy Bysshe Shelley


Shelley scrisse “Zastrozzi” all’età di 17 anni mentre frequentava l’ultimo anno ad Eton College. Due furono i romanzi scritti dal poeta durante questo periodo “Zastrozzi” e “St. Irvyne or the Rosicrucian” entrambi pubblicati nel 1810. 
Come più volte sottolineato dalla critica, entrambe le opere sono di scarso valore letterario, ma hanno un loro valore in quanto anticipano tematiche che saranno poi ampiamente sviluppate nella poetica di Shelley.
“Zastrozzi” è a tutti gli effetti un romanzo gotico che molto deve alla tradizione di questo genere e ai suoi autori, primi tra tutti si possono notare i molti i richiami ad Anne Radcliffe (The Mysteries of Udolpho, 1794) e a Matthew Gregory Lewis (The Monk, 1797).
La trama del romanzo è in realtà molto semplice:
Zastrozzi aiutato dai suoi due compari, Bernardo ed Ugo, rapisce Verezzi che alloggia in una locanda e lo nasconde in una caverna dove lo tiene incatenato al buio nutrendolo solo con pane ed acqua. A seguito di un forte temporale, il tetto della caverna crolla e, a causa delle pessime condizioni di salute del prigioniero, Zastrozzi, che lo vuole comunque mantenere in vita, decide di lasciarlo alle cure di una domestica di fiducia in una dimora nascosta ed isolata. Una volta ritrovate le forze, Verezzi riesce a fuggire ed arriva nella località di Passau. Qui viene raggiunto da Matilda, contessa di Laurentini che lo convince a trasferirsi a casa sua. Matilda, innamorata di Verezzi è in realtà d’accordo con Zastrozzi. Mentre quest’ultimo vuole vendicarsi di Verezzi a causa dei torti subiti dalla madre (sedotta e abbandonata proprio dal padre di questo), Matilda vuole annientare e uccidere la sua rivale in amore, la bella Giulia, promessa sposa dello stesso Verezzi.
L’ambientazione di "Zastrozzi" è tipica del romanzo gotico: ombre cupe e minacciose, case e castelli solitari, prigioni e segrete, boschi bui e minacciosi, su uno sfondo caratterizzato dall'infuriare di tempeste e dallo scatenarsi violento di tutti gli elementi naturali.
Nel romanzo shelleyano però i mostri leggendari ed i fantasmi che animano la storia sono di tipo diverso da quelli presenti nel romanzo gotico vero e proprio. In "Zastrozzi" l’elemento magico scompare per lasciare posto all'indagine dei processi mentali e della psicologia dei protagonisti; il racconto è in realtà il racconto delle passioni (amore, lussuria e sete di vendetta) che muovono i quattro personaggi principali di questo breve dramma: Matilda e Giulia, Zastrozzi e Verezzi.
Matilda e Zastrozzi (i malvagi) sono uniti dalle loro macchinazioni contro la coppia di innamorati formata da Giulia e Verezzi (gli eroi del bene).
Percy Bysshe Shelley  (1792 - 1822)
Mentre Matilda, la crudele seduttrice ossessionata e dominata dall'oggetto della sua lussuria nelle ultime pagine si pentirà della sua condotta e, riconciliatasi con la religione, proverà rimorso per i crimini commessi, Zastrozzi il suo coraggioso complice, al contrario, affronterà la morte dignitosamente, fermamente convinto di aver agito per il meglio, fiero del suo comportamento. 
Giulia è l’antitesi della contessa di Laurentini, così come quest’ultima rappresenta la sensualità, così Giulia rappresenta la bellezza angelica e la purezza; sarà proprio questo sentirsi oppresso e preso in trappola tra questi due impulsi opposti ed inconciliabili che porterà il povero Verezzi ad uccidersi pugnalandosi a morte.

“La mia regola è quella di apparire calmo, a dispetto degli eventi, a dispetto delle passioni più profonde. Di solito lo sono poiché non permetto che le ordinarie vicende o gli imprevisti mi tocchino: la mia anima si indurisce davanti alle prove più ardue. Ho uno spirito ardente, impetuoso come il tuo, ma la conoscenza del mondo mi ha indotto a celarlo, sebbene continui a bruciare dentro di me. Credimi, non ho alcuna intenzione di distoglierti dal tuo intento; io l’ho provato una volta, ma ora la vendetta ha ingoiato ogni altro sentimento e mi sento vivo soltanto per questo scopo. Ma anche se volessi dissuaderti dal proposito su cui ti sei fissata, non direi che è sbagliato tentare. Ogni cosa che procuri piacere è giusta e congeniale alla dignità dell’uomo, che è stato creato soltanto per essere felice; altrimenti a quale scopo avremmo le passioni? Perché quelle emozioni che si agitano nel petto e che fanno impazzire sono state impiantate in noi dalla natura? Quanto poi alla speranza confusa in una vita futura, perché mai dovremmo privarci della felicità, anche se ottenuta nel modo che i più sprovveduti chiamano immorale?”.
Così parlava Zastrozzi, in maniera sofisticata. La sua anima, resa insensibile dal crimine, non poteva che albergare idee confuse di felicità immortale.
  
Secondo l’opinione della critica, la vera importanza di questo breve romanzo va ravvisata proprio nel poter intravedere nella figura di Zastrozzi un abbozzo del futuro trasgressore prometeico, dell'eroe romantico delle opere più mature di Percy Bysshe Shelley.




Bigliografia:
Percy Bysshe Shelley, “Zastrozzi” con introduzione di Giovanna Silvana, Firenze 2002, Aletheia) 

sabato 1 dicembre 2012

“Colazione da Tiffany” di Truman Capote


“Colazione da Tiffany” (Breakfast at Tiffany’s) è un romanzo scritto da Truman Capote (1924-1984) pubblicato nel 1958. La storia di Holly Golightly è però nota al grande pubblico più per la celebre trasposizione cinematografica del 1961, interpretata da una bravissima e bellissima Audrey Hepburn, piuttosto che per il racconto letterario.
In realtà tra il romanzo e il film ci sono notevoli differenze, senza nulla togliere alla versione cinematografica che è da considerare comunque un capolavoro, si può comprendere perfettamente il risentimento e la delusione di Capote per il “tradimento” perpetrato ai danni della sua opera una volta venduti i diritti cinematografici alla Paramount Pictures.
Ad una lettura superficiale del romanzo la maggiore differenza che colpisce è ovviamente il diverso finale. Nel film assistiamo ad un classico happy ending hollywoodiano tra Holly e lo scrittore squattrinato che qui ha, non solo un nome (Paul Vorjak), ma anche un background (viene mantenuto dalla sua “arredatrice” una donna sposata e più anziana di lui) completamente estranei al testo di Capote. Il finale del libro invece rimane “aperto”: Holly partirà per il Brasile senza dare più notizie di sé.
Lo scrittore è effettivamente innamorato di Holly anche nel libro, ma è un amore diverso, sembra, in effetti, non esserci nessuna attrazione fisica nonostante lui si riconosca comunque geloso di lei. Il sentimento resta incerto ed ambiguo, solo accennato, nonostante ad un certo punto lui pronunci queste parole “Sei meravigliosa. Unica. Ti amo.”

Oppure, e la domanda è legittima, il mio sdegno derivava, sia pure in piccola parte, dal fatto che ero innamorato di Holly? In parte, sì. Perché ero davvero innamorato di lei. Come una volta ero stato innamorato dell’anziana cuoca negra di mia madre e di un postino che mi permetteva di seguirlo nei suoi giri e di una intera famiglia di nome McKendrick. Anche questo tipo di amore genera gelosia.
 
La storia della “Signorina Holiday Golightly, in transito”, una ragazza fragile ma caparbia, un po’ svampita anche se cinica, egoista e generosa al tempo stesso, capricciosa, fragile e sognatrice raccontata nelle pagine di Capote non sembra apparentemente così diversa da quella della Holly che appare sul grande schermo ad eccezione di qualche particolare fisico (per esempio il colore dei capelli) e dalla mancanza della classe e dell’eleganza proprie della Hepburn che inevitabilmente hanno dato un fascino diverso alla protagonista del film rispetto a quella del libro.

“Non amate mai una creatura selvatica, signor Bell.” Lo ammonì Holly. “E’ stato lo sbaglio di Doc. Si portava sempre a casa qualche bestiola selvatica. Un falco con un’ala spezzata . E una volta un gatto selvatico adulto con una zampa rotta. Ma non si può dare il proprio cuore ad una creatura selvatica; più le si vuol bene più forte diventa. Finchè diventa abbastanza forte da scappare nei boschi. O da volare su un albero. Poi su un albero più alto. Poi in cielo. E sarà questa la vostra fine, signor Bell, se vi concederete il lusso di amare una creatura selvatica. Finirete per guardare il cielo.”

Non ci sono solo le già citate differenze tra la versione dello scrittore, l'io narrante del romanzo ed il co-protagonista nel film, ma anche altri personaggi nella versione cinematografica hanno subito “rimaneggiamenti”. Tra questi troviamo Mag Wildwood, la modella balbuziente che nel libro condivide per qualche tempo l’appartamento con Holly, in realtà nel film diventa solo una semplice comparsa. Altri personaggi poi sono stati proprio eliminati: non c’è nessuna traccia nel film del barista Joe che nel romanzo è proprio colui che fornisce il pretesto all’io narrante di raccontare attraverso un lungo flashback la storia di Holly Golightly.
In “Colazione da Tiffany” c’è molto di autobiografico (i riferimenti all’omosessualità, il nome della madre, la professione dello scrittore). Truman Capote ebbe un’infanzia molto difficile, figlio di genitori separati, crebbe presso dei parenti. La madre lo andava a trovare occasionalmente e spesso lo portava con sé durante i suoi incontri con l’amante di turno, lasciandolo chiuso a chiave al buio nelle varie stanze d’albergo. Il padre, sempre alla ricerca di ricchezza e di un facile successo, sparì dalla vita di Capote salvo ricomparire quando lo scrittore raggiunse il successo. Fece scalpore un’intervista che Truman Capote rilasciò al New York Times dicendo di se stesso “Sono un alcolizzato. Sono un tossicomane. Sono omossessuale. Sono un genio”. Fu proprio per questi suoi atteggiamenti che spesso venne paragonato ad un Oscar Wilde contemporaneo. Negli ultimi anni della sua vita collezionò una serie di fallimentari relazioni sentimentali con uomini interessati esclusivamente al suo denaro; intossicato dai sonniferi e dall’abuso di superalcolici, morì poco prima di compiere 60 anni.
Nel libro ci sono spesso allusioni ad una possibile bisessualità di Holly che nel film vengono completamente eliminate così come nel film viene omessa la gravidanza della protagonista. La stessa Mag Wildwood la modella balbuziente, che nel film ha così poco spazio, nel libro alla sua prima apparizione dà comunque l’impressione di una possibile bisessualità.

Avevo una compagna di stanza a Hollywood, che recitava nei western, la chiamavano la Guardia a Cavallo; ma devo riconoscerle che in casa era meglio di un uomo. Naturalmente, gli altri non potevano fare a meno di pensare che fossi un po’ lesbica anch’io. E lo sono naturalmente. Tutte lo siamo, un po’. E con questo?

E’ più vicino al mio ideale Nehru; o Wendell Wilkie. E sarei sempre pronta a prendermi la Garbo. Perché no? Una persona dovrebbe poter sposare uomini o donne o… stammi a sentire, se tu venissi a dirmi che vuoi metterti con un cavallo da corsa rispetterei il tuo sentimento. No, parlo sul serio. L’amore dovrebbe essere libero. Ne sono profondamente convinta (…)

La versione cinematografica di “Colazione da Tiffany” riduce molto la denuncia di Capote di una società ipocrita e perbenista dove diplomatici e personaggi dell’alta società non esitano a scaricare “la prostituta” per salvare il loro buon nome e la loro posizione.

Mio marito ed io quereleremo, decisamente, chi tenterà di collegare i nostri nomi a quella re-re-repellente e de-de-degenerata ragazza. (Signora Trawler)

Ho la mia famiglia da proteggere e il mio nome, e sono un vigliacco quando si tratta di queste istituzioni. (Josè)

 Gli ho detto di interessarsi alla faccenda, e di mandarmi il conto. Ma di non fare mai, assolutamente, il mio nome, capite. (O.J. Berman)

La cover girl diventa così l’unico personaggio “onesto”.

Voglio dire, non si può sbattersi un uomo e incassare i suoi assegni e non cercare almeno di credere che lo si ama. Non l’ho mai fatto, io.
 
Non un’onestà di tipo legale (…) ma un’onestà nei confronti di se stessi. Sii quello che vuoi ma non un vigliacco, un fanfarone, un ladro di emozioni, una sgualdrina; preferirei avere il cancro piuttosto che un cuore disonesto.

Segnalo, per chi avesse l’occasione e fosse interessato, che la compagnia teatrale “Gli Ipocriti” con Francesca Inaudi e Lorenzo Lavia, sta portando in scena per la regia di Piero Maccarinelli, l’adattamento teatrale di Samuel Adamson di “Colazione da Tiffany”. Questa versione dovrebbe avvicinarsi di più al testo di Capote, ispirandosi anche alla sua biografia, piuttosto che al modello cinematografico.

domenica 25 novembre 2012

“Lettera sulla felicità” di Epicuro


Epicuro nacque nel 341 a.C. a Samo e morì ad Atene nel 271 a.C. dove fondò una scuola, il Giardino, aperta anche alle donne e agli schiavi. L’epicureismo fu una dottrina molto diffusa dal IV secolo a.C. fino al II secolo d.C. Subì un rapido declino in quanto avversato dai Padri della Chiesa, ma fu rivalutato nuovamente in seguito in epoca Umanistica, durante il Rinascimento ed il periodo dell’Illuminismo.
Fu autore di numerosi scritti che sono andati in parte perduti e di cui restano solo alcuni frammenti. Sono giunte però tre epistole riportate da Diogene Laerzio: la “Lettera ad Erodoto”, la “Lettera a Meneceo” e la “Lettera a Pitocle”.

Proprio la “Lettera a Meneceo” conosciuta anche come “Lettera sulla felicità” viene riproposta da Einaudi con testo greco a fronte nella traduzione di Angelo Pellegrino (70 pagine – prezzo € 8,00). Nel volume ritroviamo inoltre le “Massime capitali”, il “Gnomologium Vaticanum Epicureum” e la “Vita di Epicuro” scritta da Diogene Laerzio.

Perché leggere questo libro? Direi soprattutto per riscoprire e comprendere meglio il pensiero di un filosofo che nel corso dei secoli è stato frainteso, odiato ed equivocato.
E perché no? Forse la dottrina epicurea potrebbe aiutarci a vivere più tranquillamente la vita di tutti i giorni…a conoscerci meglio, ad essere più felici, ad imparare ad accettare i nostri limiti, a non desiderare l’impossibile, ad allontanarci da tutto ciò che ci crea ansia, a prendere le distanze da tutto ciò che è superfluo e che non abbia come fine ultimo la nostra serenità.

Perché come recitano le prime righe dell’introduzione scritta dallo stesso Angelo Pellegrino:

“Epicuro e la giustezza del piacere”
Un pensiero per la vita, solo per la vita.
Un filosofo veramente amico che da ventitre secoli non cessa di dirci che non può esistere autentica felicità senza il piacere.
Un pensiero che, contrariamente a tanti altri, non ha mai fatto e non può fare male a nessuno, che inviata ad amare se stessi e soprattutto a rispettarsi, azione primaria per non danneggiare i propri simili.

Davvero interessante poi la seconda parte dell’introduzione “Fortuna d’una traduzione” in cui Angelo Pellegrino ci racconta la nascita del suo progetto, la storia e la fortuna editoriale della prima edizione della sua traduzione, nelle edizioni dei volumetti da 1000 lire, e del suo amore per Epicuro e la dottrina epicurea.

da “Lettera sulla felicità”

Meneceo,
Mai si è troppo giovani, o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell’animo nostro (…) Cerchiamo di conoscere allora le cose che fanno la felicità, perché quando essa c’è tutto abbiamo.

da “Massime capitali”

VIII - Di per sé nessun piacere è male, ma bisogna stare attenti a certi modi di procurarlo, che arrecano più tormenti che piacere.

XVII – Il giusto è un tranquillo, l’ingiusto un agitatore perenne.

XXVII – Il bene più grande che la conoscenza ci offre per la felicità di tutta la vita è acquistare l’amicizia.

XXXI – Diritto di natura significa patto fondato sull’utile reciproco, per non fare male agli altri e non riceverne.

Come definirei questo libro? Un libro da tenere a portata di mano, magari sul comodino e da rileggere ogni tanto…

mercoledì 14 novembre 2012

The Keats- Shelley House


Quello di oggi sarà un post un po’ diverso dal solito perché vorrei raccontarvi di una giornata davvero speciale. Spesso le emozioni forti non hanno voce e così ora mi ritrovo a fissare lo schermo cercando disperatamente di riuscire a trovare le parole più adatte per descrivere quel senso di agitazione misto a commozione ed ansia che mi hanno colta appena giunta al n. 26 di Piazza di Spagna.

Davanti a quel grande portone marrone, sovrastato dalla targa in marmo che recita “Keats Shelley Memorial House acquired and dedicated to the memory of the two poets by their admires in England and America”, la caotica Piazza di Spagna mi sembra ad un tratto un luogo silenzioso e solitario. Improvvisamente ci siamo solo io ed “il portone”: mentre lo apro chiedendomi quante volte Keats abbia fatto quello stesso gesto, comprendo che quella che sto per varcare non è semplicemente la soglia di una casa, ma la soglia del tempo stesso. Mentre salgo le strette scale di marmo bianco, circondata dalle figure dei personaggi del romanticismo inglese, cresce l’emozione al pensiero che sto camminando dove personaggi quali Byron, Shelley, Severn hanno camminato due secoli fa e sono sempre più affascinata dall’idea che di lì a pochissimo attraverserò quelle stesse stanze dove ha trascorso gli ultimi mesi della sua vita uno dei poeti da me più amati, John Keats.



Al primo piano, alla biglietteria, mi accoglie una ragazza inglese molto gentile che, in un italiano stentato, mi consegna il ticket e mi accompagna in una saletta adiacente dove posso vedere un interessante video della durata di una quindicina di minuti, tutto rigorosamente in inglese, sulle vite di Byron, Keats e Shelley e sulla storia della Memorial House.



La Keats-Shelley House è, come dice il nome stesso, una “casa museo”. Non essendo su suolo britannico non può ricevere sovvenzioni pubbliche dal Regno Unito. Per sopravvivere pertanto si affida alla generosità dei suoi sostenitori, agli ingressi (il biglietto è davvero economico, costa solo € 4,50) ed alla vendita di alcuni articoli per la maggior parte libri e gadget di notevole qualità venduti a prezzi veramente congrui.

Finito il filmato è giunta l’ora di affrontare la salita degli ultimi gradini per entrare nel cuore stesso della casa! La prima stanza è una stanza immensa, una vera e propria biblioteca, con le pareti di legno scuro ricoperte interamente dai libri. Il museo ospita una delle più importanti biblioteche della letteratura romantica oltre ad un’esclusiva collezione di manoscritti quadri ed oggetti memorabili. Tutto, dall’arredamento ai tendaggi, è curato alla perfezione sin nei minimi particolari. Qui possiamo ammirare un ritratto di Percy Bysshe Shelley mentre compone “ Il Prometeo liberato” alle Terme di Caracalla, un bellissimo dipinto di Joseph Severn eseguito nel 1845. Da questa sala si accede ad una stanza più piccola dove sono conservati oggetti legati a Byron, a Shelley e ai membri del loro circolo. Da questo ambiente che in realtà all’epoca era utilizzato dalla padrona di casa, la signora Angeletti, come cucina si accede ad una deliziosa piccola terrazza che si affaccia su Trinità dei Monti. E qui di nuovo il batticuore pensando che quasi due secoli prima Keats osservava quello stesso panorama che sto ammirando io! Sempre dal salone principale si accede ad altre due stanze: la prima che incontriamo è la stanza di Severn anch’essa piena di manoscritti, miniature, reliquie e prime edizioni di libri, tra cui una copia della prima edizione dell’Endymion di John Keats. Dalla stanza di Severn si accede direttamente alla stanza di Keats, dove il poeta spirò il 23 febbraio dell’anno 1821. Che emozione! La finestra della stanza dà su Piazza di Spagna e viene spontaneo chiedersi quante volte Keats seduto allo scrittoio abbia osservato la gente in strada, quante volte abbia sospirato immaginando magari di poter un giorno passeggiare in quella stessa piazza e per le altre strade della città eterna con la sua amata Fanny Brawne…purtroppo ogni speranza, ogni sogno gli sarà precluso, la morte lo coglierà, infatti, a soli 25 anni.

Questa la descrizione della stanza che si può leggere nella guida del museo che si può acquistare a € 3,50 direttamente alla biglietteria sia in italiano che in inglese:

Secondo la legge vaticana, dopo la morte di Keats tutto quanto era contenuto in questa stanza, incluso il letto e le tende, doveva essere bruciato. Si riteneva allora, erroneamente, che questo avrebbe impedito la diffusione dell’infezione. Il caminetto tuttavia, è originale ed è qui che Joseph Severn riscaldava il cibo per Keasts. I rumori che Keats poteva udire dal suo letto sono simili a quelli che sentiamo oggi – l’acqua che scorre nella Barcaccia o lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli sui sampietrini.
L’ultima acquisizione di rilievo alla collezione del Museo è del 2003 (centenario della fondazione della Keats-Shelley Memorial Association): è il letto collocato nella stanza, che risale al 1820 circa, in noce italiana, di forma semplice ma armoniosa, un classico letto “a barca”.

All’interno di una teca nella stanza di Keats è conservata la lettera che Severn scrisse a Charles Brown il giorno dopo la sepoltura di Keats nella quale ricorda gli ultimi momenti del poeta:

“Se n’è andato – è morto nel modo più tranquillo… il 23 (venerdì) alle quattro e mezzo si approssimò la morte – “Severn – S – tirami su perché sto morendo – morirò facilmente – non ti spaventare – grazie a Dio ci siamo”. – Lo tirai su tra le mie braccia, e il catarro sembrava ribollirgli nella gola – e andò aumentando fino alle 11 di notte, quando gradualmente scivolò nella morte – così quietamente che pensai dormisse…”

Si è conclusa così la visita ad uno dei musei più emozionanti che io abbia mai visitato, un’esperienza bellissima e commovente. Se amate ed adorate Keats quanto me sarà senza dubbio un’esperienza unica. Se amate la poesia romantica di Shelley, Byron e Keats dovete visitarlo assolutamente, non perdete l’occasione di entrare nella storia del romanticismo inglese e trascorre un’oretta con i suoi protagonisti.. .

Non sono mai stata molto brava con le parole, so bene di non essere stata in grado si trasmettervi nemmeno una piccolissima parte delle emozioni che ho provato, ma spero di essere riuscita almeno ad incuriosirvi un poco…
Per chi volesse dare un’occhiata virtuale alla Keats-Shelley House lascio qui il link della pagina ufficiale del museo.


A thing of beauty is a joy for ever:
Its loveliness increases; it will never
Pass into nothingness; but still will keep
A bower quiet for us, and a sleep
Full of sweet dreams, and health, and quiet breathing.
  

Una cosa bella è una gioia per sempre:
cresce di grazia; mai passerà
nel nulla; ma sempre terrà
una silente pergola per noi, e un sonno
pieno di dolci sogni, e salute, e quieto fiato.

 (da "Endymion" John Keats)

sabato 3 novembre 2012

“La donna in bianco” di Wilkie Collins


Wilkie Collins (1824 – 1889) è conosciuto come il padre del romanzo poliziesco grazie soprattutto alla sua capacità di narrare storie di delitti e di misteri avvalendosi di strutture narrative intricate e ben congegnate.
Il padre di Wilkie Collins, un noto pittore paesaggista dell’epoca, avrebbe voluto per il figlio una carriera ecclesiastica. Lo scrittore però, per nulla incline a seguire i desideri paterni, preferì intraprendere una carriera commerciale, dedicandosi nel frattempo a scrivere articoli e brevi racconti pubblicati con uno pseudonimo. In seguito, resosi conto di non essere tagliato al commercio del tè, decise d’accordo con il padre di dedicarsi allo studio della legge e riuscì ad essere ammesso ad esercitare la professione forense. Neppure questa però si rivelò essere la sua vera strada. Approdò così alla sua vera vocazione: la scrittura, grazie alla quale le conoscenze legali apprese trovarono una maggiore e creativa applicazione.
Un importante evento per la sua carriera letteraria fu la conoscenza di Dickens, avvenuta nel 1851, con il quale iniziò non solo una vera e sincera amicizia ma anche una collaborazione lavorativa. Wilkie Collins collaborò attivamente alle riviste di Dickens “Household Words” e “All the Year Round” e proprio su quest’ultima rivista il 26 novembre 1859 uscì la prima puntata de “La donna in bianco”. Fin dalla prima uscita il romanzo si rivelò un successo; non solo vi fu un indubbio aumento di tiratura della rivista ma a Londra si scatenò una vera e propria mania, insomma la pubblicazione del romanzo divenne un vero fenomeno commerciale. Le vicende narrate ne “La donna in bianco” divennero argomento di discussione per le strade e nei salotti; si arrivò persino a dedicare profumi alla misteriosa “dama” e ci furono addirittura abiti, balli e serate a tema dedicate a lei.
Il romanzo prende avvio dall’incontro di Mr Hartright, un insegnante di disegno, con una misteriosa donna vestita di bianco della quale solo più tardi si verrà a sapere che si chiama Anne Catherick e che è fuggita dal manicomio. Walter Hartright nel frattempo viene assunto per insegnare l’arte del disegno a due sorelle (solo da parte di madre) Mariam Halcombe, donna intelligente ed energica, e Laura Fairle, donna angelica e delicata.
Non voglio anticipare nulla di più perché è un libro ricco di colpi di scena che si susseguono ripetutamente. “La donna in bianco” è un romanzo carico di suspense, non esiste un “io onnisciente” ma i fatti sono riportati di volta in volta dai vari personaggi come fossero testimonianze di un processo. Proprio attraverso i vari punti di vista dei protagonisti e dei testimoni dei fatti il lettore partecipa al gioco di ricostruzione del complotto ordito. Un complotto che vede protagonista un’eroina che, per affermare e rivendicare i propri diritti ereditari e sociali, è costretta ad opporsi ai pregiudizi ed alle leggi dell’epoca vittoriana oltre a combattere contro personaggi malvagi e pericolosi.
Non mancano inoltre gli elementi tipici della letteratura gotica come la misteriosa apparizione della donna vestita di bianco che potrebbe sembrare un’apparizione ultraterrena oltre alle atmosfere cupe ed alle situazioni inquietanti, dovute spesso alla capacità dell’autore di giocare sul “tema del doppio”.
Non è un romanzo brevissimo, sono circa 690 pagine, ma non fatevi spaventare dalla mole perché “La donna in bianco” è a tutti gli effetti un libro che si legge tutto d’un fiato grazie ad una trama avvincente e ad una scrittura coinvolgente che tiene il lettore incollato fino all’ultima pagina. Assolutamente consigliata la lettura.

Bigliografia:
"La donna in bianco" di Wilkie Collins, 2012 Fazi Editore, introduzione di Paolo Ruffilli - traduzione Stefano Tummolini

martedì 16 ottobre 2012

“Poesie” di Emily Dickinson (1830 – 1886)


Emily Dickinson, considerata la più grande poetessa statunitense nonché uno tra i maggiori lirici del XIX secolo, nacque nel 1830 ad Amherst nel Massachusetts dove morì nel 1886.
Trascorse tutta la vita nella casa paterna allontanandosene raramente e solo per brevi soggiorni: Washington, Filadelfia, Boston e Cambridge.
Non seguì un corso di studi regolare e la sua educazione ufficiale si interruppe dopo un solo anno di college, quando aveva appena 17 anni. Nonostante questo, vivendo in un ambiente familiare dalle forti pressioni culturali e religiose, la Dickinson divenne un’assidua e regolare lettrice di autori contemporanei, poeti ed intellettuali, non tralasciando comunque di coltivare la sua passione per gli autori del Seicento in particolare dei Metafisici né la lettura delle sacre scritture. Frequenti sono infatti i riferimenti nelle sue poesie a personaggi e vicende della Bibbia, ma anche alle opere di Shakespeare e di Emily Bronte, una delle sue autrici preferite.
Si innamorò di un pastore, ma il suo fu un amore esclusivamente platonico; visse isolata e gli ultimi anni li trascorse ritirata nelle sue stanze; la sua fu un’esistenza solitaria ad eccezione della corrispondenza epistolare con i pochi amici e delle rare visite nel vicinato.
Emily Dickinson scrisse 1775 poesie, ma solo sette di esse furono pubblicate durante la sua vita. L’edizione delle sue opere apparve postuma, in varie raccolte, fino alla prima e completa edizione critica del 1955.
Il libro edito nel 2004 da Mondatori con testo originale a fronte a cura di Massimo Bacigalupo, (edizione rivista e aggiornata della prima edizione del 1995) riporta le poesie della Dickinson suddivise per anni: una sorta di diario in versi con cui la poetessa racconta il lento scorrere dei giorni, i momenti di vita quotidiana, le gioie e i dolori, le speranze e gli affanni, l’amore per la natura e l’alternarsi delle stagioni. Non mancano inoltre racconti di fatti che coinvolgono la società del tempo in cui Emily Dickinson visse, dobbiamo infatti ricordare che molte poesie furono scritte proprio durante gli anni della guerra di secessione. I grandi temi affrontati nella poesia della Dickinson possono essere così riassunti: amore, morte, natura ed eternità.
Da sottolineare nell’edizione “Poesie” (Mondatori, Cles 2004) la breve ma interessante e coinvolgente postfazione di Natalia Ginzburg dal titolo “Il paese della Dickinson” tratta da “Mai devi domandarmi” (Einaudi, Torino 2002).

Per chi volesse dare uno sguardo al museo di Emily Dickinson ad Amherst, ecco qui il link.


189

Che piccola cosa è piangere –
che breve cosa è sospirare –
eppure – di venti – così
noi uomini e donne moriamo!



342

Sarà estate – prima o poi.
Donne – con parasoli –
uomini a passeggio – canne d’India –
e bambine – con bambole –
coloreranno il paesaggio pallido –
come un luminoso mazzo di fiori –
per quanto sommerso di pario –
il paese di stenda – oggi –

I lillà – piegati da molti anni –
dondoleranno carichi di violetto –
le api – non disprezzeranno il motivo –
che i loro avi – cantarono –

La rosa selvatica – arrosserà lo stagno –
l’aster – sulla collina
detterà – la sua moda perenne –
e le genziane pasquali – crinoline –

finché l’estate ripiegherà il suo miracolo –
come una donna la gonna –
o i sacerdoti – ripongono i simboli –
quando il sacramento – è finito –



747

Cadde tanto in basso – nella mia considerazione
che lo udii battere in terra –
e andare a pezzi sulle pietre
in fondo alla mia mente –

ma rimproverai la sorte che lo abbatté – meno
di quanto denunciai me stessa,
per aver tenuto oggetti placcati
sulla mensola degli argenti –

lunedì 1 ottobre 2012

“Il re e il suo giullare” di Margaret George



Chi era Enrico VIII? L’immagine più irriverente che tutti hanno di Enrico VIII è quella di un grasso monarca che addenta una succulenta coscia di pollo. Tutti o quasi ricordano che si sposò per ben sei volte, condannò a morte per decapitazione due delle sue mogli e ne ripudiò altre tre. Molti ricordano anche che fu colui che promosse lo scisma anglicano proclamandosi capo della Chiesa inglese e che fu il padre della grande Elisabetta I, la figlia di Anna Bolena, una dei sovrani più popolari della storia inglese, che regnò dal 1558 al 1603.

 “Il re e il suo giullare – l’autobiografia di Enrico VIII annotata dal buffone di corte Will Somers” il libro di Margaret George è sì una biografia romanzata di Enrico VIII Tudor (1491 – 1547), ma nonostante siano presenti numerosi elementi di fantasia ed invenzione, è comunque nell'insieme un romanzo storicamente attendibile e molto ben documentato.
A dispetto della mole che può spaventare, siamo intorno alle 940 pagine, il libro è veramente ben scritto, la lettura è scorrevole ed interessante.
Il romanzo affronta il racconto della vita di Enrico VIII dalla sua nascita, narrandoci la sua infanzia, i rapporti con i genitori, il fratello e le sorelle, i suoi studi inizialmente indirizzati alla carriera ecclesiastica.
Il libro ci presenta un nuovo ed inedito Enrico VIII, non più solo un sovrano dispotico e sanguinario, ma un uomo con le sue paure e i suoi timori, le sue passioni e i suoi desideri. Un uomo che nonostante la sua continua ricerca di amore ed amicizia, è spesso un uomo solo come sono soliti esserlo gli uomini di potere. Un uomo che vive nel timore di essere l’eterno secondo: non solo secondo per successione al trono, ma anche nell’amore del padre che gli preferiva il fratello maggiore Arturo.
Un sovrano ansioso e preoccupato di morire senza lasciare un’impronta di sé e di essere dimenticato dai posteri.
Amori e tradimenti, pettegolezzi, matrimoni, lotte dinastiche, vittorie e sconfitte sono al centro di questo romanzo che, coinvolgendo il lettore fin dalle prime pagine, fa rivivere gli splendori e i fasti, le cospirazioni e gli intrighi alla corte del più famoso monarca d’Inghilterra.
Tra storia e finzione Margaret George ci regala un’interessante analisi psicologica di Enrico VIII, non tralasciando di approfondire i suoi rapporti con altri personaggi non solo politici dell’epoca e tracciando anche un quadro preciso dei rapporti che legavano Enrico alle sue sorelle, Maria e Margherita.
Un romanzo storico davvero ben strutturato, da leggere assolutamente soprattutto se appassionati del genere.


Perché nessun uomo dovrebbe essere felice di servirne un altro senza la speranza di un riconoscimento. Perché tutto è temporaneo, e questo monito della natura passeggera delle cose mi rattrista.


giovedì 20 settembre 2012

“Testamento” di Kritos Athanasulis

Non voglio che tu sia lo zimbello del mondo.
Ti lascio il sole che lasciò mio padre
a me. Le stelle brilleranno uguali, e uguali
t’indurranno le notti a dolce sonno,
il mare t’empirà di sogni. Ti lascio
il mio sorriso amareggiato: fanne scialo,
ma non tradirmi. Il mondo è povero
oggi. S’è tanto insanguinato questo mondo
ed è rimasto povero. Diventa ricco tu
guadagnando l’amore del mondo.
Ti lascio la mia lotta incompiuta
e l’arma con la canna arroventata.
Non l’appendere al muro. Il mondo ne ha bisogno.
Ti lascio il mio cordoglio. Tanta pena
vinta nelle battaglie del mio tempo.
E ricorda. Quest’ordine ti lascio.
Ricordare vuol dire non morire.
Non dire mai che sono stato indegno, che
disperazione m’ha portato avanti e son rimasto
indietro, al di qua della trincea.
Ho gridato, gridato mille e mille volte no,
ma soffiava un gran vento, e pioggia, e grandine:
hanno sepolto la mia voce. Ti lascio
la mia storia vergata con la mano
d’una qualche speranza. A te finirla.
Ti lascio i simulacri degli eroi
con le mani mozzate, ragazzi che non fecero a tempo
ad assumere austera forma d’uomo,
madri vestite di bruno, fanciulle violentate.
Ti lascio la memoria di Belsen e di Auschwitz.
Fa’ presto a farti grande. Nutri bene
il tuo gracile cuore con la carne
della pace del mondo, ragazzo, ragazzo.
Impara che milioni di fratelli innocenti
svanirono d’un tratto nelle nevi gelate
in una tomba comune e spregiata.
Si chiamano nemici: già! i nemici dell’odio.
Ti lascio l’indirizzo della tomba
perché tu vada a leggere l’epigrafe.
Ti lascio accampamenti
d’una città con tanti prigionieri:
dicono sempre sì, ma dentro loro mugghia
l’imprigionato no dell’uomo libero.
Anch’io sono di quelli che dicono, di fuori,
il sì della necessità, ma nutro, dentro, il no.
Così è stato il mio tempo. Gira l’occhio
dolce al nostro crepuscolo amaro.
Il pane è fatto pietra, l’acqua fango,
la verità un uccello che non canta.
È questo che ti lascio. Io conquistai il coraggio
d’essere fiero. Sfòrzati di vivere.
Salta il fosso da solo e fatti libero.
Attendo nuove. È questo che ti lascio.
(Traduzione di Filippo Maria Pontani)

Ho scoperto questa poesia per caso in una sera d’estate. Negli ultimi mesi Rai1 mandava in onda, subito dopo il TG, il programma “Techetechetè”, nuova versione del precedente “Da da da”, nel quale venivano trasmessi spezzoni della TV di ieri e di oggi. Ebbene quella sera uno dei protagonisti era Vittorio Gassman e tra i vari spezzoni che lo riguardavano uno in particolare mi ha colpita: la lettura di “Testamento” di Athanasulis. Un momento davvero intenso ed emozionante sia per la bravura di Vittorio Gassman sia per l’intensità del testo.
Ho fatto allora qualche ricerca su questo poeta purtroppo con scarsi risultati. Mi spiace soprattutto non aver trovato il video in cui Gassman recita la poesia, mi farebbe davvero piacere poterlo rivedere. 


Kritos Athanasulis (Tripoli, Arcadia 1917 – Atene 1979) è un poeta greco molto attento alle problematiche sociali e civili. Visse momenti difficili durante l’occupazione della Grecia da parte dei nazisti (1941 – 1944), periodo durante il quale si sviluppò una letteratura clandestina molto impegnata, e successivamente durante la dittatura che, dopo il 1967, costrinse al silenzio o all’esilio molti intellettuali suoi contemporanei.
In “Testamento”, pubblicato per la prima volta in Italia nella raccolta “Due uomini dentro di me” (1957), Athanasulis medita sulle dolorose esperienze vissute, sull’amarezza e sulla disperazione che il ricordo degli orrori della guerra portano inevitabilmente con sé, ma parla anche di speranza e di libertà, di quella libertà che è un valore assoluto e prioritario nella vita di ogni essere umano.

lunedì 17 settembre 2012

“Lo scandalo della stagione” di Sophie Gee


Ci troviamo in Inghilterra sotto il regno della regina Anna, sovrana di fede protestante ma discendente Stuart. I contrasti religiosi sembrano ormai superati, nonostante qualche Giacobita trami ancora nell’ombra per portare sul trono il cattolico Giacomo, al momento in esilio in Francia. Alla fine dell’estate dell’anno 1711, fervono i preparativi per la nuova season londinese, che si preannuncia ricca di divertimenti, feste in maschera, balli e nuove conoscenze: il futuro di molte giovani donne dipenderà dalla loro capacità di saper giocare bene le proprie carte (patrimonio, bellezza, astuzia…) per riuscire ad accalappiare un marito.
Sophia Gee prende spunto dal poema eroicomico “Il ricciolo rapito” (The rape of the lock) opera di Alexander Pope (1668 - 1744) pubblicata nel 1712 (versione definitiva pubblicata nel 1714) nel quale il poeta, facendo uso del “distico eroico” (metro tipico dello stile epico), narra le vicende della bella Arabella Fermor (Belinda nella poesia) e di Lord Petre. La vicenda, come si evince dal titolo stesso, è fondata sul ratto di una ciocca di capelli, o per essere più precisi di un ricciolo, che Lord Petre riesce a tagliare alla fanciulla. Belinda tenta di farsi rendere quanto le è stato rubato a tradimento, ma inutilmente; la ciocca di capelli, infatti, vola via nell’aria e si trasforma in una stella. Arabella Fermor e Lord Petre sono al centro dello scandalo della stagione raccontato nel libro della Gee. Tra i personaggi che prendono parte alla vicenda ritroviamo lo stesso Alexander Pope, il “rospo gibbuto”, che grazie alla sua forza d’animo attira immediatamente le simpatie del lettore. I difetti fisici del poeta vengono ben presto dimenticati: la totale mancanza di avvenenza, il colorito malaticcio, la schiena ricurva non sono più importanti; il lettore, totalmente assorbito e ammaliato dalla sua arguzia, dalla sua voglia di vivere, dalla sua vivacità intellettuale, si trova immediatamente a desiderare che egli possa ottenere quanto prima la fama, la ricchezza e l’amore di Teresa Blount a cui aspira così ardentemente. Teresa e la sorella minore Martha sono cugine della donna più desiderata di Londra, la famosa Arabella Fermor. Martha, una ragazza semplice e dotata di buon senso, è segretamente innamorato di Alexander Pope. Teresa, bella e impertinente, non possiede purtroppo le buone qualità della sorella, è una ragazza superficiale, ammira e invidia lo stile di vita della cugina Arabella e, nonostante sappia di essere priva di dote, aspira ugualmente ad un matrimonio al di sopra delle proprie possibilità. Amata da Pope, nutre per lui sentimenti di semplice stima ed affetto; da donna superficiale qual è, al contrario di Martha, guardando il poeta vede solo un uomo dallo sgradevole aspetto fisico.
Se dovessi definire il romanzo della Gee con un solo aggettivo credo lo definirei un romanzo “indeciso”. L’idea di prendere spunto dall’opera di Pope per la trama è davvero originale ed interessante, ma per il resto tutto sembra troppo abbozzato. E’ vero l’ambientazione storica, la descrizione delle feste, degli abiti, dei luoghi, della vita dell’epoca è dettagliata e precisa, ma la caratterizzazione dei personaggi è troppo superficiale, non c’è alcun approfondimento psicologico. È un libro che promette molto e mantiene poco. Possiede in sé un grande potenziale purtroppo inespresso: sembra, infatti, che Sophie Gee abbia fretta di concludere la storia, accenna tutto senza indagare nel dettaglio i rapporti interpersonali tra i personaggi, le motivazioni che li spingono ad agire in un modo piuttosto che in un altro e anche l’idea della congiura Giacobita a cui prende parte Lord Petre che potrebbe essere un capitolo importante del romanzo, si riduce alla fine ad uno sterile racconto privo di sostanza...
Con questo non voglio dire che “Lo scandalo della stagione” sia un libro illeggibile, scritto male; anzi in realtà l’ho trovato un libro scorrevole e piacevole. La delusione consiste nel fatto che avrebbe potuto essere un bellissimo romanzo storico e purtroppo il risultato è una lettura poco impegnativa, un libro “da leggere sotto l’ ombrellone”.
Devo comunque riconosce che l’autrice ha davvero una vasta conoscenza dell’epoca storica di cui parla e soprattutto con questo romanzo ha avuto il grande merito di incuriosire il lettore ed invogliarlo a leggere ”Il ricciolo rapito” di Pope.

martedì 28 agosto 2012

“La cena” di Herman Koch

“La cena è un romanzo teso, doloroso…politicamente scorretto…molto contemporaneo”. Così Daria Bignardi definisce il romanzo di Herman Koch.
Poche parole che colgono perfettamente l’essenza di questo libro che, in poco più di 250 pagine, riesce a trasformare il semplice racconto di uno spaccato di vita familiare in un thriller avvincente e spietato attraverso una narrazione dal ritmo serrato ed incalzante, spesso intervallata da flashback che aiutano il lettore a comprendere meglio la psicologia dei vari personaggi e a mettere a fuoco ciò che si cela dietro la maschera che ognuno di loro indossa.
Ho letto questo libro su suggerimento di un’amica che lo aveva recensito per il suo canale video (www.youtube.com/user/pennylane1202) e devo ammettere che mi ha davvero sorpresa, è un romanzo assolutamente da leggere!
Il consiglio è di affrontare la lettura senza conoscere le vicende che verranno narrate e, se si è in grado di resistere, senza leggere il riassunto sul retro della copertina dove vengono svelati troppi particolari che rovinerebbero la suspense, creata dall’autore in modo perfetto, nell’attesa di conoscere “il fatto” sul quale è costruito tutto il romanzo.
Cercando di anticipare il meno possibile, posso dire che il racconto, intervallato con perfette scelte tempistiche e narrative da flashback che portano il lettore a conoscenza degli avvenimenti precedenti, si svolge nell’arco di una cena (da qui la suddivisione dei vari capitoli in aperitivo, antipasto, secondo piatto, dessert, digestivo e mancia) in uno dei migliori ristoranti di Amsterdam.
A tavola siedono due coppie, due fratelli con le rispettive mogli: lo scopo della riunione di famiglia è discutere di un “reato” commesso dai due figli quindicenni, Michael e Rick.
I genitori di Michael, Paul Lohman (io narrante), un professore di storia in pensione anticipata, e Claire, una donna apparentemente serie ed affidabile, sono presentati come una coppia affiata e positiva, che crede nei valori della famiglia. I genitori di Rick, sono invece da subito proposti come una coppia piena di contrasti e sin dalle prime pagine si ha un’impressione negativa di entrambi: lui, Serge Lohman candidato, con ottime possibilità di vittoria, alle elezione di Primo Ministro, è un uomo “finto”, dai “mille volti”, la cui esistenza è basata solo sull’apparenza; lei, Babette, è una donna frivola e superficiale, interessata esclusivamente alla carriera politica del marito per poter vivere di luce riflessa e ricoprire il ruolo di First Lady.
Procedendo con la lettura ci si rende conto che l’apparenza inganna, pagina dopo pagina, l’autore ci lascia percepire che non tutto è come sembra e così la coppia perfetta vacilla davanti agli occhi del lettore. Quelle persone che sembravano tanto responsabili, politicamente corrette non sono poi così oneste e sincere come erano sembrate all’inizio del libro, il castello di carte inizia a scricchiolare; quella coppia per cui si è provata una simpatia immediata non è per nulla innocente, ma è invece cinica e violenta. Allo stesso tempo l’altra coppia, dalla facciata perbenista e snob, che sembrava essere tanto sprezzante ed opportunista, diventa quasi una coppia di persone “normali” con i loro difetti e le loro colpe che agli occhi del lettore a questo punto diventano quasi peccati veniali. L’autore ci fornisce un tassello dietro l’altro e, svelando di volta in volta particolari del vissuto di ognuno dei protagonisti, ci permette di mettere a fuoco una verità che nessuno avrebbe immaginato.
Mi fermo qui, non posso dire di più per non rovinare il piacere della lettura e della scoperta che, come ho già detto, è fondamentale in questo romanzo sconvolgente ed inquietante.
Cosa è morale e cosa non lo è? A quali compromessi saremmo disposti a scendere pur di proteggere i nostri figli? Quanto è importante la felicità? Quali reati commetteremmo pur di vivere serenamente? Saremmo disposti anche ad uccidere, a rubare, ad ingannare il prossimo pur di salvaguardare noi stessi e le persone a cui vogliamo bene?
“La cena” è un romanzo che fa pensare, che pone interrogativi ai quali è difficile dare risposte, una realtà quotidiana e scomoda che non vorremmo mai dover affrontare.
Questo libro è un pugno nello stomaco, fa male per la sua freddezza, il suo squallore e la sua autenticità ma serve a farci riflettere; il mondo descritto in questo libro è il mondo in cui viviamo, non è fantascienza è vita vera, è un dramma contemporaneo.
Un romanzo davvero affascinante e perverso, che per ambientazione, dialoghi e descrizioni dettagliate della psicologica dei personaggi sarebbe perfetto per un lavoro teatrale.

lunedì 20 agosto 2012

“Barry Lyndon” di William M. Thackeray (1818-1863)


Thackeray diede inizio alla stesura di “Barry Lyndon”, pubblicato a puntate nel 1844 sul Fraser’s Magazine, quattro anni prima della pubblicazione del romanzo che gli diede la fama “La fiera della vanità”.
Nell’edizione BUR che ho acquistato c’è una breve descrizione del libro a cura di Flavio Santi che riporto di seguito:
“Ecco la dimostrazione lampante che il Settecento contiene già l’intera modernità. Tutta questa adrenalina fatta di fughe, duelli, amori, peripezie non è cinema puro? Non sono i fotogrammi di una pellicola in anticipo di due secoli sui Lumiere? Una volta tanto non dovrete incollarvi allo schermo: lasciatevi trascinare dalle avventure di Redmond Barry. Il romanzo è uno strepitoso technicolor di parole ed emozioni”.
Confesso che, nonostante l’evidente errore di attribuzione errata del romanzo al Settecento, questa descrizione ha attirato la mia curiosità e ha contribuito a far sì che leggessi il libro. Dopo averlo letto però mi è venuto spontaneo chiedermi se le parole di Santi siano davvero una descrizione del romanzo o non siano state piuttosto ispirate dalla visione del film che Stanley Kubrick ha liberamente tratto dal romanzo stesso. Ammetto di non aver ancora  avuto occasione di vedere il film, ma spero di colmare presto questa lacuna, sono infatti piuttosto curiosa di conoscere che taglio il regista abbia dato alla storia e di sapere come risulti la vicenda riportata sul grande schermo.
Tornando al libro, devo ammettere che l’ho trovato terribilmente noioso e lento, un monotono susseguirsi di aneddoti e racconti monotematici (gioco d’azzardo, donne sedotte, corti europee e campagne militari) relativi alla vita del protagonista. Scritto come un’autobiografia, il romanzo narra in prima persona le vicende di Barry Lyndon, un personaggio d’invenzione, ispirato alla figura dell’irlandese Andrew Robinson Bowes, la cui pessima reputazione e la cui cattiva condotta si adattano perfettamente al protagonista del romanzo di Thackeray. Le vicende di Andrew Robinson Bowes forniscono all’autore solamente gli elementi essenziali del romanzo, entrambi i personaggi infatti, sia quello reale che quello di pura finzione letteraria, appartengono alla piccola borghesia irlandese ed entrambi attraverso il matrimonio vengono elevati al rango nobiliare oltre ad ottenere un consistente patrimonio sposando delle ereditiere che alla fine si riveleranno più scaltre dei mariti riuscendo a metterli fuori gioco. Entrambi dilapideranno la fortuna delle consorti e saranno oppressi dai debiti di gioco, ma nelle pagine del romanzo, Barry Lyndon sarà anche un giocatore d’azzardo di professione oltre ad essere il protagonista di una discutibile carriera militare.

Forse, nel corso delle mie molteplici avventure non mi sono mai imbattuto nella donna adatta per me, e ho dimenticato, poco dopo, tutte le creature che avevo adorato; ma credo che, se mi fossi imbattuto in quella giusta, l’avrei amata per sempre.

Acquistare qualche migliaio di sterline l’anno a costo di una moglie odiosa è un pessimo investimento per un giovane di spirito e di talento.

Barry Lyndon è un personaggio irritante e senza scrupoli, è un antieroe. In un periodo storico in cui gli autori scrivono romanzi di formazione quello di Thackerey è tutto l’opposto.
Il lettore fin dalle prime pagine, ben guidato in tal senso da Thackeray, prova una sorta di diffidenza nei confronti del protagonista che si rivela da subito un personaggio antipatico e irriverente. Nel racconto della sua storia, dall’ascesa sino al suo declino, Barry Lyndon, distorce continuamente i fatti, non provando alcuna vergogna. Non cerca mai scuse per il suo comportamento scorretto e se, in rari casi, è costretto dagli eventi a cercare una sorta di giustificazione, lo fa con una naturalezza al limite dell’imbarazzante: la colpa è sempre degli altri.
Scrive le sue presunte memorie dalla prigione di Fleet ma non guarda al suo passato con tristezza, né con rimorso, la sua persona è tutto ciò che conta, l’attenzione è sempre puntata su sé stesso e il suo declino non è altro che la prova delle sue conquiste del passato.

Ma come è mutevole il mondo! Quando consideriamo quanto grandi ci sembrano i nostri dolori e quanto sono piccoli nella realtà; quante volte pensiamo di essere sul punto di morire di dolore e quanto rapidamente dimentichiamo tutto, penso che dovremo vergognarci di noi stessi e della mutevolezza del nostro cuore.

Thackeray dimostra di essere un profondo conoscitore dell’animo umano nonché un capace scrittore di satire; Barry Lyndon è indubbiamente un personaggio ben riuscito secondo l’intento moralistico prefissatosi dall’autore, servendosi di sarcasmo ed ironia Thackeray crea un personaggio che noi oggi potremmo definire uno snob. Attraverso la descrizione di quest’uomo privo di morale inoltre Thackeray mette in guardia i lettori da una società corrotta, dissoluta e ipocrita abitata da uomini privi di scrupoli, disonesti e depravati.

I grandi e i ricchi sono sempre ben accolti con grandi sorrisi sullo scalone del mondo, ma i poveri che hanno aspirazioni debbono arrampicarsi sulle pareti, o spingersi lottando sulle scale di servizio, o strisciare come talpe lungo le fogne della casa, non importa se sporche o strette purché portino in alto. I pigri senza ambizioni asseriscono che non vale la pena di arrivare in cima, abbandonando la lotta dichiarano di essere filosofi. Io dico che sono codardi poveri di spirito. A che cosa serve la vita se non per ottenere onori? E questi sono tanto indispensabili che vogliamo raggiungerli ad ogni modo.

Osare e il mondo si arrende sempre o, se qualche volta vi sconfigge, osate ancora ed esso soccomberà.

Questo romanzo è stata una delusione rispetto alle mie aspettative, il ritmo lento e la storia ripetitiva e monotona ne fanno un libro terribilmente noioso; mi aspettavo molto di più dall’autore di un capolavoro quale “Vanity Fair”. Il personaggio di Barry Lyndon è davvero troppo indisponente, ma il romanzo lascia però intravedere la grande capacità di Thackeray di descrivere l’animo umano, la sua visione cinica della società dove non sono sempre il bene e la virtù a prevalere.
Se volete leggere qualcosa esclusivamente per distrarvi e passare qualche ora lieta, vi consiglio di leggere un altro libro; da leggere assolutamente invece se desiderate conoscere più a fondo l’autore e le sue opere perché Barry Lyndon è un abbozzo del personaggio ben più riuscito di Becky Sharp (La fiera delle vanità), un’arrampicatrice sociale, priva di scrupoli e principi, che riuscirà a raggiungere il successo manipolando il prossimo. Becky Sharp come Barry Lyndon è fredda e calcolatrice, egoista ed arrivista, ma al contrario di Lyndon ha anche dei pregi: è una donna intelligente e colta mentre Lyndon disprezza la cultura e deride, guardandolo dall’alto in basso, chiunque la possieda. Becky sa riconoscere le proprie sconfitte e soffre quando deve cedere a bassi compromessi perdendo tutto ciò che ha guadagnato; solo lei è la causa dei suoi mali ed il lettore non può certamente giustificarla, ma è comunque portato a volte a provare un po’ di compassione nei suoi confronti. Non ci può essere nessun sentimento di pietà invece da parte del lettore per Barry Lyndon che è talmente sicuro di sé da non riconoscere neppure la propria caduta; il suo atteggiamento ed i suoi modi lo rendono un personaggio insopportabile, odioso ed irritante dalla prima all’ultima pagina.